Generalisti. Perché una conoscenza allargata, flessibile e trasversale è la chiave per il futuro
Presentazioni & Recensioni

Quello di David Epstein è uno dei libri più importanti pubblicati nel corso dell’anno. E le ragioni sono molteplici. Perché può essere la pietra d’angolo su cui costruire una nuova narrazione, funzionale alla edificazione dell’era digitale nella quale stiamo entrando. Perchè rompe una serie di luoghi comuni in auge da decenni: il mito della iper specializzazione, la teoria delle 10 mila ora (affrontare i problemi con la forza bruta della volontà, finchè la realtà non cede alla perseveranza), e anche la bontà del vagare per settori disciplinari diversi, assaggiando e cambiando gusti. Perchè apre una nuova prospettiva (insieme ad altri autori, tra cui Garry Kasparov) sul modo in cui potranno impostarsi le relazioni tra gli uomini e le macchine.
L’importanza di questo libro, la si coglie se si considera che siamo infatti in una fase di passaggio da un paradigma fordista a un paradigma digitale.
Il primo aveva come principi cardine: in primo luogo la riduzione dei costi di trasporto e di comunicazione, ammassando i produttori all’interno delle grandi fabbriche e i consumatori all’interno delle grandi metropoli; il secondo luogo la divisione, parcelizzazione e specializzazione del lavoro secondo il concetto della catena di montaggio.
Su questi due principi, è stato edificato tutto il mondo nel quale siamo vissuti sino ad ora.
Un mondo che certo la crisi pandemica dovuta al Covid-19 ha accelerato l’obsolescenza, ma che tuttavia iniziava già a “battere in testa”, sia perchè produceva crescenti esternalità negative; sia perchè non funzionava proprio più: noi esseri umani siamo e viviamo in un tutto interconesso e interdipendente, e le specializzazioni creano confini e steccati là dove non dovrebbero esserci.
Ciò che qui interessa mettere in evidenza è che il passaggio dal vecchio al nuovo paradigma implica un cambiamento radicale, nel senso che ciò che funzionava nel vecchio paradigma non funziona più nel nuovo. È un cambio di orientamento che deve essre fatto quanto prima, perchè quello che prima era il Nord ora è il Sud.
Se prima aveva senso concentrare le risorse, ora è possibile (ed ha senso) distribuire le risorse; se prima, stante le conoscenze acquisite, aveva senso l’iper specializzazione ora ha senso essere dei generalisti, per riprendere il titolo del libro. Se prima aveva senso creare dei settori disciplinari chiusi, ora ha senso mescolare le discipline e gli approcci.

È quello che il grande storico Tony Judt aveva teorizzato come il vantaggio dell’outsider, chi si sposta da un settore disciplinare a un altro di solito vede cose che gli altri, per abitudine, convenzione, ossequio, non vedevano.
Per inciso, Tony Judt non ha mai usato esplicitamente quella espressione, ma è singolare che Epstein intitoli un intero capitolo in quel modo, senza mai citarlo. Questo per dire che a volte si creano delle corrispondenze oggettive dettate dalla forza delle cose; dei mutamenti che non iscritti nella realtà.
Si diceva in apertura che Epstein insieme ad altri autori contribuisce ad impostare in maniera nuova il problema delle relazioni tra uomini e macchine (robotica, intelligenza artificiale ed altro). Per dirla in una battuta, noi esseri umani siamo generalisti, mentre le macchine sono specialiste. Chi vuole battere una macchina su un terreno specialistico è sconfitto in partenza. Per dirla con Andrew MacAfee per quante ore di palestra un minatore possa fare è difficile che possa competere con un martello pneumatico. Ecco perchè per il futuro, come sostiene Vartan Gregorian, avremo bisogno di una scuola di specializzazione per diventare generalisti
C’è un ultimo aspetto a cui qui fare solo un cenno ed è il valore dell’esperienza, che può essere una gran cosa quando si tratta di ripetere e affinare schemi noti, ma che diventa una pericolosa palla al piede quando si tratta di affrontare situazioni ignote.
Il punto, su cui Epstein batte a lungo, è gravido di conseguenze. Per dirne una: l’analisi dei Big Data (che sono ormai diventati il mantra della nuova era) con l’intelligenza artificiale è usata per (banalizzo) predire il futuro. O meglio individuare schermi e correlazioni che potrebbero ripetersi nel futuro. Ma se l’esperienza non serve a predire il futuro (si corre anzi in rischio della path dependency), allora vuol dire anche le analisi basate sui Big Data potrebbero essere poco utili (Watson docet!).
Dunque, per il futuro si dovrà tenere a mente di rimanere in superficie senza scendere in maniera eccessiva nelle profondità di un settore disciplinare e di saltare da un settore all’altro, lasciandosi guidare dalla sola curiosità e dalla sensazione di benessere che si avverte quando si sente che si sta facendo la cosa giusta.
Tenendo presente due cose. La prima che, se ci si è lasciati correttamente condurre come Poldo dall’odore degli hamburger, prima o poi sarà possibile unire tutti i punti alla Steve Jobs (Connecting the Dots). La seconda, la iper specializzata tigre dai denti a sciabola è morta di fame e si è estinta. Mentre i topi hanno conquistato il mondo.