Nessuna società può essere florida e felice se la grande
maggioranza dei suoi membri è povera e miserabile
Adam Smith
Gibbon concluse la sua Storia della decadenza e caduta dell'impero romano con queste parole: “ho descritto il trionfo della barbarie e della religione”[1]. Questa frase fa infuriare Toynbee: “a Gibbon non venne mai in mente che l'epoca degli Antonini non fu l'estate, ma l' «estate di san Martino» della storia ellenica. Lo stesso titolo della sua grande opera rivela, quanto travedesse: Decadenza e caduta dell'impero romano! L'autore di una storia che porta questo titolo e poi comincia nel secondo secolo dell'era volgare, inizia certo il suo racconto ad un punto che è molto vicino alla fine. Poiché il «campo intellegibile di studio storico» che interessa Gibbon non è l'impero romano ma la civiltà ellenica della cui avanzata disgregazione lo stesso impero romano era un sintomo monumentale. Se si tien conto di tutta quanta la faccenda, la rapida decadenza dell'impero romano dopo gli Antonini non appare per nulla sorprendente. Al contrario, sarebbe stato sorprendente se l'impero romano fosse durato; giacché quest'impero era già condannato prima ancora che si inaugurasse. Era condannato perché la fondazione di questo stato universale non fu altro che una ripresa, che poté ritardare, ma non arrestare permanentemente la rovina già irreparabile della società ellenica. Se Gibbon si fosse rifatto a raccontare dall'inizio questa complessa storia avrebbe scoperto che «il trionfo della barbarie e della religione» non era la trama del dramma ma soltanto il suo epilogo – non la causa del crollo ma soltanto l'inevitabile accompagnamento di uno sfacelo in cui doveva terminare il lungo processo di disgregazione. Di più, avrebbe scoperto che la chiesa e i barbari trionfanti non erano dopo tutto potenze esterne, ma autentici figli della casata ellenica, che s'erano moralmente alienati dalla minoranza dominante nel corso di un'epoca di torbidi intervenuta tra il crollo pericleo e la ripresa augustea. Di fatto, se Gibbon avesse rivolto l'inchiesta al vero inizio della tragedia avrebbe dovuto pronunciare un differente verdetto. Avrebbe dovuto ammettere che la società ellenica era una suicida che aveva tentato quando la sua vita era ormai compromessa di allontanare le fatali conseguenze del suo gesto e che aveva finito per ricevere il colpo di grazia dai suoi stessi figli malcapitati e diseredati, nel momento che alla ripresa augustea era già seguita la ricaduta del terzo secolo e la paziente moriva manifestamente per le ripercussioni delle sue antiche ferite suicide”[2].
Toynbee ha ragione: si trattò di un atto di suicidio che risale al tempo dell'affossamento delle riforme dei Gracchi. Toynbee ha ragione: l'inizio della decadenza è molto più antico e il principio di questa storia va individuato nella vittoria di Scipione su Annibale. E' allora che la grande trasformazione inizia a lavorare, producendo rivoluzioni economiche e flagelli sociali. Le tecniche della coltivazione intensiva si estesero “dalle comunità greche della Sicilia agli ampi territori dell'Italia meridionale spopolati e devastati dalla guerra annibalica. Dovunque essa si stabilì, accrebbe notevolmente la produttività del suolo e i guadagni del capitalista”[3].
Le terre devastate dalla guerra “dell'Italia meridionale vennero trasformate parte in pascoli e parte in vigneti e uliveti, e la nuova economia rurale, coltivazione e allevamento insieme, venne operata da schiavi in luogo dei liberi contadini che avevano un tempo dissodato il terreno prima che i soldati di Annibale bruciassero i casolari, e i rovi e le erbacce invadessero i campi abbandonati”[4]. Il risultato fu quello di ridurre “la terra alla sterilità sociale”[5]: “questo salto rivoluzionario da un'agricoltura di consumo a una di mercato e dal lavoro libero all'applicazione di mano d'opera servile accrebbe per qualche tempo il valore monetario dei raccolti; ma la cosa fu più che bilanciata dai mali sociali che implicò”[6], dato che “le piantagioni schiavistiche, dovunque si diffusero, scacciarono e immiserirono i piccoli proprietari contadini, così inesorabilmente come la cattiva moneta scaccia la buona. Conseguenza sociale fu lo spopolamento della campagna e la creazione di un proletariato urbano parassita nella città, più specialmente in Roma. Nessuno degli sforzi delle successivi generazioni di riformatori romani, dai Gracchi in avanti, riuscì a liberare il mondo romano da questa peste sociale che l'ultimo progresso della tecnica agricola le aveva inflitto”[7]. Il tentativo dei Gracchi: “riuscì soltanto ad aggravare il vizio della repubblica precipitando una rivoluzione politica senza arrestare quella economica. La lotta politica divampò in guerra civile e, cent'anni dopo il tribunato di Tiberio Gracco, i Romani consentirono all'istituzione della dittatura perpetua di Augusto quale drastico rimedio per uno stato di cose disperato”[8].
Il sistema del latifondo schiavistico continuò “finché non cadde spontaneamente in conseguenza del crollo dell'economia monetaria da cui dipendeva per i suoi profitti. Questo crollo finanziario fu parte della generale debacle sociale del terzo secolo dopo Cristo; la debacle fu senza dubbio, in parte, l'effetto della malattia agraria che aveva roso i tessuti dell'organismo romano negli ultimi quattro secoli. Così questo cancro sociale finì per sopprimersi da sé causando la morte della società cui si s'era attaccato”[9].
Toynbee ha ragione. E' tutto vero, a condizione però di porre l'accento non sull'innovazione tecnica, né sul mercato in sé e per sé, né sulle devastazioni delle truppe annibaliche quali cause dell'inizio della fine. La decisione di dare avvio (o non equilibrare) il processo della grande trasformazione fu politica, così come tutta politica fu la decisione di non curare i mali da essa prodotti. La dittatura che spense ogni cosa fu dunque la diretta conseguenza di quella questione sociale non risolta e della decisione politica che l'aveva prodotta.
Toynbee ha, pertanto, ragione, ma sbaglia ad attaccare Gibbon. Egli ha infatti semplicemente affermato di aver descritto l'avvento della barbarie e della religione, ma non in un solo punto della sua opera si legge che la causa del crollo di Roma fu dovuta ai barbari e alla religione. Gibbon nota come la prospettiva ultra-mondana illanguidì lo spirito marziale[10], ma giustamente individua la causa prima di tale fenomeno nel dispotismo del potere[11]: “Quella virtù pubblica, che gli antichi chiamavano patriottismo, è prodotta dal forte sentimento del nostro interesse alla conservazione e prosperità del libero governo del quale siamo membri. Tale sentimento, che aveva reso le legioni della repubblica quasi invincibili, non poteva dare che una debolissima impressione sui servi mercenari di un principe dispotico”[12]. Gli espedienti dell'onore e della disciplina (e della speranze di arricchimento) poterono in qualche modo supplire all'assenza del patriottismo ma era stato già iniettato “un lento e segreto veleno nelle parti vitali dell'impero”[13]: gli uomini erano ancora forti ma avevano perso ogni forma di “coraggio civile”[14]: “i romani, dopo la caduta della repubblica – scrive Gibbon - non combattevano che per la scelta di un padrone. La bandiera di un pretendente all'impero era seguita da pochi per affetto, da alcuni per timore, da molti per interesse, da nessuno per principio”[15].
Se critiche al Cristianesimo ci sono, esse sono comunque tenui[16], mentre con forza sottolinea quanto la religione, da Costantino in poi, corroborò il potere dispotico degli imperatori[17]: Costantino “si servì degli altari della chiesa come di un comodo sgabello al trono dell'impero”[18], anche se, nel contempo, gli imperatori posero inconsapevolmente un limite al proprio imperio[19].
Anche Gibbon, dunque, nell'avvento del dispotismo vede il principio della fine: “il nome di repubblica romana, che così a lungo conservò una tenue tradizione di libertà, era limitato alle province latine, mentre gl'imperatori di Costantinopoli misuravano la loro grandezza dalla servile obbedienza del loro popolo. Essi non sapevano quanto questo atteggiamento snervi e degradi ogni facoltà dell'animo. I sudditi, che avevano abbandonato la loro volontà ai comandi assoluti di un padrone, erano ugualmente incapaci di difendere la loro vita e i loro beni dagli assalti dei barbari, come di difendere la propria ragione dai terrori della superstizione”[20]. La source del declino militare ed economico è, dunque, anche per Gibbon, il dispotismo[21]: “la storia della rovina è semplice ed ovvia, e anziché indagare perché l'impero romano fu distrutto, dovremmo piuttosto meravigliarci che sia durato così a lungo. Le vittoriose legioni, che in guerre lontane acquistarono i vizi degli stranieri e dei mercenari, prima oppressero la libertà dello stato, poi violarono la maestà della porpora. Gl'imperatori, preoccupati della loro sicurezza personale e della pubblica pace, si abbassavano al vile espediente di corrompere la disciplina, che le rendeva ugualmente temibili al loro sovrano e al nemico, il vigore militare fu indebolito e finalmente abbattuto dai parziali ordinamenti di Costantino e il mondo romano fu sommerso da un'inondazione di barbari”[22].
Alle tante citazioni sopra riportate basti aggiungere la seguente: “dal regno di Augusto al tempo di Alessandro Severo, i nemici di Roma, tiranni e soldati, erano nel suo interno. (…) quando i militari ebbero ridotto a una selvaggia anarchia il potere dell'imperatore, le leggi del senato e la stessa disciplina militare, i barbari del settentrione e dell'Oriente, che fino ad allora avevano atteso ai confini, assalirono arditamente le province della cadente monarchia”[23]. E più oltre Gibbon scrive: “il governo romano appariva sempre meno temibile ai suoi nemici e più odioso e oppressivo ai suoi sudditi. Le tasse si erano moltiplicate come le pubbliche calamità, si trascurava l'economia a misura che diveniva più necessaria, e l'ingiustizia dei ricchi scaricava quell'onere ineguale sul popolo, che essi defraudavano delle elargizioni, che talvolta ne avrebbero potuto alleviare la miseria. Il vessatorio fiscalismo, che confiscava i beni e torturava le persone, costringeva i sudditi di Valentiniano a preferire la più semplice tirannia dei barbari, a fuggire nei boschi e sulla montagne o ad abbracciare l'abietta e vile condizione di servi mercenari. Essi rinnegavano e aborrivano quel nome di cittadino romano, che prima era ambito da tutti”[24]. Fu l'arbitrio del dispotismo, la violenza e il vessatorio fiscalismo che distrussero Roma e resero deserte e malariche le campagne: “Sant'Ambrogio ha deplorato la rovina di una popolosa regione, che un tempo era ornata dalla fiorenti città di Bologna, Modena, Reggio e Piacenza. Papa Gelasio era suddito di Odoacre e afferma con grande esagerazione che nell'Emilia, nella Toscana e nelle vicine province la specie umana era quasi estirpata”[25].
Per Gibbon, dunque, non fu la religione ad abbattere l'impero, né furono i barbari: “se tutti i conquistatori barbari fossero stati annientati a un tempo, la loro totale distruzione non avrebbe fatto risorgere l'impero d'Occidente[26]”.
La rovina di Roma è, pertanto, la rovina della libertà civile. Il cuore di Gibbon batte per la repubblica[27]; e non è un caso che l'età degli Antonini, durante la quale ci fu la parvenza di una restaurazione repubblicana[28], sia indicata da Gibbon come tra le età più felici della storia romana. E la sua opera è la storia del lento perfezionarsi della megamacchina del dispotismo orientale a Roma e a Costantinopoli; è la cronaca della lenta asfissia e degli ultimi rantoli della civiltà romana.
Roma, dunque, crollò perché l'antica struttura istituzionale e politica, costruita per garantire la libertà ai propri cittadini, fu distrutta dalle armi di un esercito di proletari, il sottoprodotto di quella rivoluzione economica che prese il via con la sconfitta di Cartagine. Nessuno ha fatto crollare Roma, non i barbari né il Cristianesimo; essa si è autoimposta la sconfitta, si è “autodistrutta”[29]. E se l'impero dopo il suo fondatore, durerà ancora più di tre secoli è solo perché il caso si prenderà cura di alternare imperatori illuminati a despoti mostruosi.
In una sola battuta, se la risoluzione di quella prima questione sociale del Monte Sacro garantì uno straordinario periodo di crescita e di espansione all'antico comune romano, la mancata risoluzione della questione sociale dell'età graccana produsse il collasso delle antiche libertà e con esse l'avvento del dispotismo. La costruzione dell'impero, pertanto, non fu l'anticipazione di una razionale amministrazione, né l'incipit dello stato moderno, ma fu la pietra tombale di quel processo di modernizzazione e di secolarizzazione che aveva plasmato l'antica società aperta romana. Allo stesso modo i despoti cittadini dell'Italia medievale non crearono lo “stato come opera d'arte”, come pur credeva il Burckhardt, essi anzi sbarrarono la strada a tale processo. Macek lo scrive chiaramente: “la strada verso lo «stato moderno» non va dal comune, passando attraverso la repubblica aristocratica e democratica, verso la Signoria e il Principato, come vogliono farci credere alcuni storici; al contrario, la via verso uno «stato moderno» (…) fu interrotta, sbarrata dalla sconfitta delle repubbliche e dalla vittoria del Principato. (…) Le Signorie e i Principati italiani costituivano, quindi, un fenomeno ritardatore che frenò lo sviluppo sociale. E' impossibile non tener conto del fatto che le Signorie e i Principati erano cresciuti sulle rovine delle repubbliche popolari, sul sangue delle rivolte popolari sconfitte. E', quindi, del tutto logico riscontrare la loro comparsa nell'Italia settentrionale, proprio nelle zone dove era iniziato il ristagno economico-sociale e dove più spesso le masse popolari erano state schiacciate”[30].
In sintesi, Roma prima e Firenze poi crolleranno per non essere riuscite a risolvere una questione sociale, che è il naturale prodotto dello sviluppo economico, a preservare quelle istituzioni che garantivano la libertà: in poche parole le cause del crollo vanno individuate nel fallimento del tentativo di conciliare, sia a Roma che a Firenze, la giustizia sociale e la libertà individuale.
Non i barbari dunque di cui si sentì il passaggio – scrive Toynbee – solo perché si trovarono presenti alla morte della società romana e che “non possono nemmeno pretendere la distinzione di aver assestato il colpo mortale. Ai tempi che essi giunsero in scena la società ellenica era già moribonda per autolesioni infertasi nell'epoca di torbidi di secoli prima. Essi furono semplicemente gli avvoltoi che divorarono la carogna o i vermi che strisciarono sulla carcassa”[31].
E non il Cristianesimo, che fu il sintomo, non la causa. Lo si è visto nell'evoluzione dell'intellettuale: dalle libertà repubblicane al dispotismo dell'impero e delle Signorie cittadine, dalla partecipazione all'isolamento, dalla terra al cielo. Quando il potere arbitrario e totale trasforma il mondo in una valle di lacrime non c'è altra soluzione che sperare in una vera vita oltre la morte. Il Cristianesimo ebbe la funzione di rispondere a questo bisogno di speranza.
Ma sia per gli intellettuali che per le masse l'esigenza fu la stessa: fuggire da un mondo da cui era evaporata ogni traccia di giustizia e di libertà. La risposta degli intellettuali fu l'utopia delle città immaginarie, la contemplazione sterile, l'eruditismo maniacale o la negazione della filosofia nella teologia; per le masse, tale risposta, fu la fede cristiana. In sintesi, il cristianesimo, una delle varie religioni orientali che migrarono a Roma, riuscì a trionfare perché offriva una via di fuga alle masse martoriate dal dispotismo del potere e riuscì ad attecchire perché trovò “un campo gerbido da coltivare nelle anime di una «minoranza dominante» che non era riuscita, in questo mondo, a salvare le fortune della società greco-romana”[32], vale a dire, la nomocrazia, la democrazia, la libertà individuale, la giustizia sociale e la fede nell'uomo e nel mondo. La forza del Cristianesimo è pertanto l'altra faccia del prosciugamento della libertà dei moderni presso gli antichi.
Ma il Cristianesimo ebbe anche la funzione di sorreggere i troni, conquistati con la forza e l'inganno. Somministrò quel bene preziosissimo che è la legittimità ai despoti imperiali e alle dinastie, nate dalla tirannide, delle città italiane, ma poté farlo solo dopo aver conquistato le anime della masse. Il cristianesimo dunque fornì legittimità ai despoti e una rete di solidarietà e sostegno sociale in terra e la speranza di una nuova vita ai sudditi oppressi.
Il monito che viene dai secoli è dunque chiaro. Il mercato lasciato libero di operare produce naturalmente e contemporaneamente sviluppo economico e disuguaglianza sociale; le ricchezze crescono ma contemporaneamente cresce la povertà. Le fortune si concentrano nelle mani di pochi, mentre i più scivolano verso il basso. Nel complesso dunque si produce “un'accumulazione di miseria adeguata all'accumulazione di capitale”[33].
Il peso di tale sbilanciamento sociale ed economico inizia a gravare sempre più su quelle strutture istituzionali, che avevano generato la crescita. Sbarrata la strada ad ogni tentativo di riforme, la crisi esplode. Inizia la lotta tra gli oligarchi, che manovrando masse di diseredati che sperano in un riscatto sociale ed economico, muovono all'assalto per la conquista del potere assoluto. Il vincitore ristabilirà la pace, ma con essa istituzionalizzerà un potere assoluto, che spegnerà ogni vitalità spirituale, politica ed economica. Dunque, una questione sociale non risolta ha, come conseguenza ultima, la fine di quelle libertà che spiegano il trionfo dell'Occidente. Pertanto, il futuro riserva, ad una società dove i più stanno male la pace mortifera della dittatura. “A meno che...”[34]
Visto che il profitto è l'obiettivo del capitalista e che per ottenere tale profitto, in un regime di libera concorrenza, egli è costretto a rispettare le leggi “immanenti della produzione capitalistica”[35], che gli si impongono “come leggi coercitive”[36]; e visto egli non può porre spontaneamente attenzione alle opportune tutele sociali (che ai suoi occhi rappresentano soltanto un costo)[37] è necessario che “sia obbligato dalla società a porvi attenzione”[38], così da costruire una “potentissima barriera sociale”[39], in grado di non costringere i lavoratori, “tramite un volontario contratto col capitale, a vedere se stessi e la loro progenie alla morte e alla schiavitù”[40].
Dunque, se la politica interviene a sostegno dei più (welfare state), senza distruggere il mercato, è possibile curare i mali, che naturalmente lo sviluppo economico produce; aprendo così la porta a nuove fasi di maggiore sviluppo economico e di maggiore giustizia sociale, in un continuo crescendo. Del resto è quello che è successo nei paesi europei e negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. Lo scriverà poi chiaramente Dahrendorf: “il consenso socialdemocratico è, per certi versi, l’espressione più alta del progresso che la storia abbia mai visto sinora. In nessun’epoca precedente un così gran numero di uomini ha avuto tante «chances» di vita”[41].
Quel consenso rappresentò la conciliazione del principio del libero mercato con quello della giustizia sociale. Una conciliazione non imposta dal filantropico amore per i più umili ma dalla consapevolezza che senza giustizia sociale le sorgenti della ricchezza si prosciugano e gli istituti politici che hanno generato la crescita economica avvizziscono sotto la sferza degli usurpatori. Senza tale conciliazione le società aperte muoiono.
[1] Gibbon, Storia della decadenza e caduta, cit., vol. 3, p. 2832.
[2] Toynbee, Storia comparata delle civiltà, cit., vol. 1, p. 264-265.
[3] Ivi, vol.1, pp. 203-204.
[4] Ivi, vol.1, p. 160.
[5] Ivi, vol.1,pp. 203-204.
[6] Ivi, vol.1, p. 160.
[7] Ivi, pp. 203-204; “Anche gli scrittori che propugnano le inclosures ammettono che esse accrescono il monopolio delle grandi fattorie, rincarano i mezzi di sussistenza e causano lo spopolamento.. e anche la recinzione di terreni deserti, nella maniera in cui viene fatta oggi, ruba al povero una parte sei suoi mezzi di sussistenze e fa ingrandire fattorie di per sé già troppo estese. (..)”, citato in Marx, Il capitale, op. cit., p. 523.
[8] Ivi, vol.1, p. 160.
[9] Ivi, pp. 203-204.
[10] “Poichè la felicità di una vita futura è il grande oggetto della religione, possiamo sentire senza sorpresa, o scandalo, che l'introduzione, o almeno l'abuso del cristianesimo esercitò un certo influsso sulla decadenza e caduta dell'impero romano. La chiesa predicò con successo la dottrina della pazienza e della pusillanimità, le virtù attive della società furono scoraggiate e gli ultimi resti dello spirito militare andarono a seppellirsi nei conventi. (...) La fede, lo zelo, la curiosità e le mondane passioni dell'invidia e dell'ambizione accesero la fiamma della discordia teologica, la chiesa e anche lo stato furono dilaniati dalle fazioni religiose, i cui conflitti furono talvolta sanguinosi e sempre implacabili, l'attenzione degli imperatori si trasferì dai campi di battagli ai sinodi, il mondo romano fu oppresso da una nuova specie di tirannia e le sette perseguitate divennero segrete nemiche del loro paese. Tuttavia, lo spirito di parte, per quanto pernicioso e assurdo, è un principio d'unione, oltre che di discordia. I vescovi da milleottocento pulpiti inculcavano il dovere dell'ubbidienza passiva al legittimo ortodosso sovrano, le loro frequenti adunanze e la continua corrispondenza mantenevano i contatti tra le chiese più distanti e l'indole benefica del vangelo venne rafforzata, sebbene circoscritta, dall'alleanza spirituale dei cattolici. La sacra indolenza dei monaci fu devotamente praticata da un'epoca effeminata e servile, ma se la superstizione non avesse offerto questo decoroso rifugio, gli stessi vizi avrebbero spinto gl'indegni romani ad abbandonare per motivi più bassi le bandiere dell'impero. (...) Se la conversione di Costantino accelerò la decadenza dell'impero romano, la sua vittoriosa religione frenò la violenza della caduta e addolcì la feroce indole dei conquistatori” Gibbon, Storia della decadenza e caduta, cit.,vol.2 pp. 1417-1418.
[11] E se è vero che attribuisce al Cristianesimo un certo illanguidirsi nei costumi, più ampie sono le colpe che addossa ai cesari “impegnati nel godimenti dei piaceri e nell'esercizio della tirannia”, Gibbon, Storia della decadenza e caduta, cit., vol. 1, p. 12. Sono loro, per Gibbon, ad aver causato il decadimento dello spirito marziale delle legioni. “I primi cesari si mostrarono raramente gli eserciti o alle province, ma non erano disposti a tollerare che il comando e il valore dei loro luogotenenti usurpassero quei trionfi trascurati dalla loro indolenza. La gloria militare di un suddito era considerata come un'insolente usurpazione delle prerogative imperiali”, ivi, vol. 1, pp. 12-13. Più oltre si legge: “Nei secoli più puri della repubblica, il servizio militare era riservato a quelle classi di cittadini, che avevano una patria da amare, un patrimonio da difendere e una parte nella promulgazione di quelle leggi, che era loro interesse e dovere conservare. Ma a misura che la libertà si perdeva con l'estendersi nelle più lontane province, la guerra a poco a poco divenne un arte e degenerò in mestiere”, ivi, vol. 1, p. 18. “Era tale l'orrore che aveva invaso l'animo dei degeneri romani per la professione delle armi, che molti giovani d'Italia e della province si tagliavano le dita della mano destra per sottrarsi al servizio militare”, ivi, vol. 1, pp. 551-552.
[12] Gibbon, Storia della decadenza e caduta, cit., vol. 1, pp. 18-19.
[13] Ivi, vol. 1, p. 59.
[14] Ibidem.
[15]Ivi, vol. 1, p. 114.
[16] Si veda Gibbon, Storia della decadenza e caduta, cit., vol. 1, pp. 430-431.
[17] “La passiva e docile obbedienza, che si piega sotto il gioco dell'autorità od anche dell'oppressione, doveva apparire tra le virtù evangeliche la più cospicua e vantaggiosa a un sovrano assoluto. I primi cristiani facevano derivare l'istituzione del governo civile non già dal consenso del popolo, ma dai decreti del cielo. Quand'anche l'imperatore avesse usurpato lo scettro per mezzo del tradimento e della strage, egli assumeva immediatamente il sacro carattere di vicario della divinità. A questa soltanto doveva rendere conto dell'abuso e del suo potere; e i suoi sudditi erano, per il giuramento di fedeltà, indissolubilmente legati a un tiranno, che avesse violato ogni legge di natura e di società”, Gibbon, Storia della decadenza e caduta, cit., vol. 1, pp. 649-650.
[18] Gibbon, Storia della decadenza e caduta, cit., vol. 1, pp. 659-660.
[19] “Da lungo tempo era una massima fondamentale della costituzione di Roma, che ogni classe di cittadini fosse ugualmente sottoposta alle leggi, e che la cura della religione fosse un diritto e un dovere del magistrato civile. Costantino e i suoi successori non potevano facilmente rendersi conto di aver alienato, con la loro conversione, parte delle prerogative imperiali, e di non potere dettar leggi a una religione, che essi avevano protetta e abbracciata”, Gibbon,Storia della decadenza e caduta, cit., vol. 3 p. 1939.
[20] Gibbon, Storia della decadenza e caduta, cit., vol. 2 p. 1171.
[21] “Al tempo del valore romano, le province furono soggette alle armi della repubblica e i cittadini alle sue leggi, finchè queste non furono distrutte dalla discordia, e le città e le province divennero patrimonio di un tiranno. La forma della costituzione che alleviava, o mascherava la loro abietta schiavitù, fu abolita dal tempo e dalla violenza. Gl'Italiani si lagnavano volta a volta della presenza, e dell'assenza dei sovrani, che essi detestavano o disprezzavano, e furono soggetti per cinque secoli ai vari mali della licenza militare, del capriccio dispotico e di un'elaborata oppressione”, Gibbon, Storia della decadenza e caduta, cit., vol. 2 pp. 1323-1324.
[22] Gibbon, Storia della decadenza e caduta, cit., vol.2 p. 1417.
[23] Ivi, vol.1 p. 183.
[24] Ivi, vol. 2 p. 1276.
[25] Ivi, vol. 2 p. 1325.
[26] Ivi, vol. 2 pp. 1276-1277. Dello stesso parere Ortega, che scrive: “I barbari possono essere stati la causa di tutte le perturbazioni che vogliamo; possono aver dato alla vita storica di questi secoli una sembianza di caos. La verità resta però che non modificarono minimamente il corpo storico, la configurazione geografica, l'anatomia dell'esperienza territoriale di quella civiltà”, Ortega, Una interpretazione della storia universale, cit., p. 65.
[27] “Le leggi di una nazione formano la parte più istruttiva della sua storia, e sebbene io mi sia dedicato a scrivere gli annali di una monarchia nel suo declinare, colgo l'opportunità di respirare l'aria pura e corroborante della repubblica”, Gibbon, Storia della decadenza e caduta, cit., vol.2 p. 1662.
[28] Gibbon, Storia della decadenza e caduta, cit., vol.1 p. 11.
[29] Ferrero, Potere, cit., p. 193.
[30] Macek, Il rinascimento italiano, cit., p. 203.
[31] Toynbee, Storia comparata delle civiltà, cit., vol.1 p. 30.
[32] Ibidem.
[33] Marx, Il capitale, cit., p. 469.
[34] Ivi, p. 207. Sia detto per inciso, questo passaggio del Capitale, rappresenta un immenso cratere nella struttura della costruzione teorica di Marx. Quel “a meno che...” significa che con le riforme si può migliorare la sorte dei più umili, il che significa che non vi è nella storia nessuna legge immanente e necessaria che conduce verso la società comunista.
[35] Ivi, p. 207.
[36] Ivi, p. 207.
[37] “Il capitale, che offre tanto “validi motivi” per negare le sofferenze della generazione di lavoratori che gli stanno attorno, non si lascia influenzare nel suo reale svolgimento dalla prospettiva di un futuro imputridimento dell’umanità e di un inevitabile spopolamento, nè più nè meno di quanto si lasci influenzare dalla possibilità della caduta della terra sul sole. (...) Per questo al capitale poco importa la salute e la durata della vita dell'operaio, a meno che non sia obbligato dalla società a porvi attenzione”, Marx, Il capitale, pp. 206-207.
[38] Ivi, p. 207.
[39] Ivi, p. 229.
[40] Ivi, p. 229.
[41] R. Dahrendorf, La libertà che cambia, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 72.