
Se Dio avesse voluto che l'uomo indietreggiasse,
gli avrebbe messo un occhio dietro la testa.
Noi guardiamo sempre dalla parte dell'aurora,
del bocciolo, della nascita
Victor Hugo
La fede nella libertà è al tempo stesso
una dichiarazione di fede nell'uomo,
nella sua indefinita perfettibilità,
nella sua capacità di autodeterminazione,
nel suo innato senso di giustizia
Carlo Rosselli
Quali esseri umani, siamo dotati di libertà di scelta
e non possiamo barare al giuoco
facendo passare le nostre responsabilità
sulle spalle di Dio o della natura.
Dobbiamo addossarcene da noi.
Dipende da noi.
A. J. Toynbee
Quest'ansia nel ricercare un'alternativa politica al modello occidentale è, in maniera indiretta, una conferma del fatto che la crisi è innanzitutto di natura politica. La diagnosi però non è del tutto corretta. Ad essere entrata in crisi è non la grammatica occidentale – nomocrazia, democrazia, modernità e secolarismo – quando piuttosto è invecchiato un certo linguaggio. In altre parole non è la piattaforma informatica ad essere entrata in crisi, ma solo uno dei software compatibili con tale piattaforma: il software hayekiano.
Il fatto che si tenda a condannare l'intero impianto occidentale (il binomio democrazia-capitalismo) è pertanto, e per le ragioni esposte in precedenza, un errore macroscopico. Un errore che però non deve né essere guardato con sufficienza, né sottovalutato, perché potrebbe essere il segnale di qualcosa di più preoccupante e cioè che la crisi stia lavorando in maniera profonda le coscienze prese orami dall'angoscia e, come ha giustamente notato Dominique Moïse, dalla paura, di cui sono preda le società aperte che in massima parte corrispondono con lo stesso Occidente. E' l'Occidente, infatti, ad aver paura. Una paura che consiste essenzialmente nella sensazione di aver perso il “controllo sul futuro”[1]. E' un punto che va tenuto a mente.
E come si collega la paura con la crisi della democrazia?[2] Scrive Moïse “quando le democrazie predicano valori che non praticano più perdono la propria superiorità morale e, con essa, la propria forza d'attrazione”[3]. Paura, angoscia e l'ansiosa ricerca di una qualunque soluzione politica – fosse pure l'autoritarismo cinese – che possa porre termine a questo stato di dolorosa frustrazione diventano i segni della crisi dell'Occidente e quindi della società aperta.
Ora, tutti questi sono segnali estremamente preoccupanti perché paiono svolgersi secondo un copione che già in passato è stato messo in scena. Sono segnali, in altre parole, che emergono massicciamente in superficie solo quando si verificano alcune condizioni. Si può in altre parole provare a sostenere la tesi che esista una certa regolarità, dati alcuni precisi eventi.
La fede della società aperta
Iniziamo con Popper. La società aperta è il frutto quasi miracoloso, raro e prezioso, di un lungo processo di modernizzazione e secolarizzazione, che da una parte ha legato il potere assoluto con una fitta maglia di diritti inalienabili e di libertà insopprimibili degli individui a petto dello Stato e di qualsiasi collettivismo; dall'altro ha annullato la cogenza normativa del Sacro nel seculum e limitato l'aspetto religioso alla sfera interiore individuale. Quindi in prima battuta si può dire che la società aperta è “una società in cui i governanti sono controllati dai governati attraverso un feed-back loopche permette la correzione delle loro decisioni. E, perché i controlli siano effettivi, la struttura della società deve essere policentrica, cioè ricca di contro-poteri politici, economici e spirituali”[4]. E, dunque, un società “aperta a più valori, a più visioni del mondo filosofiche e religiose, a più proposte politiche, e quindi a più partiti, alle critiche incessanti e severe dei diversi punti di vista delle differenti proposte. La società aperta è aperta al maggior numero possibile di idee ed ideali diversi e magari contrastanti. La società aperta è chiusa solo agli intolleranti”[5]. Ed è una società resa aperta “dalla fallibilità della conoscenza umana e dalla consapevolezza che, per quel che riguarda i valori ultimi, viviamo e vivremo in un mondo politeista”[6]. E questo perché, come giustamente scrive Popper, “non possiamo mai essere certi di aver trovato la certezza. Non possiamo neppure cercare la certezza. Poiché il risultato di tutta la ricerca umana è incerto; ed una certezza incerta è non solo inutile ma senza scopo. La ricerca della certezza porta a paradossi: all'idealismo, al solipsismo”[7].
Tuttavia, se non vi può essere nessuna certezza non ci può essere nessuna Tradizione e senza di questa non c'è società, dato che è assodato che “si dà società solo nella misura in cui sia pienamente vigente un determinato sistema di credenze, di valori e di norme – cioè a dire una tradizione culturale – che, interiorizzato dagli attori sociali, via socializzazione, si impone in virtù del suo potere coattivo-normativo e, precisamente per questo, opera come una forza di stabilizzazione e di conservazione”[8].
Se così stanno le cose, cos'ha di diverso la società aperta dalla “società astratta”[9], che è una non-società? Cosa tiene insieme un gruppo di uomini, cosa li lega al punto che possano definirsi società? Non solo, ma costruita in questo modo la società aperta è votata alla schizofrenia: “se lo spirito critico si spegne, si essicca ciò che alimenta il processo di secolarizzazione; ma, d'altra parte, se lo spirito critico investe tutto e tutti e intacca gli strati profondi delle credenze collettive – strati profondi che si appoggiano sua una fede profonda o comunque a-razionale -, allora franano le basi spirituali della solidarietà sociale”[10]
A prima vista non è facile scorgere la tradizione culturale della società aperta, se è vero che la Modernità è una forma di vita collettiva “senza valori sacri”[11] e se è vero che “la «scienza profana» caratterizza la «civiltà della critica», animata dal progetto di fondare se stessa interamente sulla ragione e sulla libera investigazione”[12], senza riconoscere nessuna autorità alla tradizione.
Ora se tutto è potenzialmente falsificabile e quindi fallibile, cosa tiene insieme questa società? Cosa spinge gli uomini ad agire comunque, a vivere senza nessuna verità nè certezza, senza neanche la speranza che prima o poi si possa giungere a qualche forma di certezza o verità? Come ci può essere azione senza una morale, dato che senza una verità vissuta come assoluta non vi può essere una morale? In altre parole se c'è ratio, come può esserci tradizio? E se non c'è tradizio, come può esserci una società?
Devo dire che proprio perché non riuscivo a vedere la distinzione tra la società aperta e quella astratta o fluida (che sono degli ossimori), mi pareva che essa non potesse che essere l'anticamera della depressione, alla quale solo il super uomo nietzschiano sarebbe riuscito a sfuggire, erigendo da sé e sulle sole fondamenta delle proprie due gambe una Weltanschauung privata, e quindi una morale: una società aperta mi pareva dunque solo un irrealistico aggregato di uomini che altro non era che la giustapposizione di una serie di stiliti muti. Cosa che mi sembrava un'assurdità dato che, pur essendo il concetto di società aperta popperiano un ideal-tipo, storicamente ci sono stati e ci sono esempi che molto si avvicinano a quello strumento di lavoro. Se ho commesso quell'errore la colpa è in primo luogo mia – alcuni passaggi degli scritti di Popper mi erano sfuggiti – in secondo luogo dello stesso Popper che non dice, o accenna di sfuggita alcuni aspetti essenziali.
Partiamo da un punto: che cos'è il metodo scientifico? E' la regola di vita di una comunità particolare di uomini: gli scienziati. Per quanto questa possa essere una comunità ristretta e sui generis anche in questo caso si pone il problema: se tutto è falsificabile come può esserci una qualsiasi azione, anzi, come può esserci persino la vita? Popper si pone questo problema e lo risolve: è il razionalismo critico, che nasce in contrapposizione al razionalismo acritico, che è proprio di chi dice “io non sono disposto ad accettare nulla che non possa essere difeso per mezzo dell'argomentazione o dell'esperienza”[13]. Tuttavia un siffatto principio è – scrive Popper, incoerente :“difatti esso non può, a sua volta, essere sostenuto dall'argomentazione o dall'esperienza”[14]. Questo significa che “il razionalismo acritico è (...) logicamente insostenibile; e poiché un argomento puramente logico può mostrare ciò, il razionalista acritico può essere battuto con la sua stessa arma preferita, l'argomentazione”[15]. Infatti “né l'argomentazione logica né l'esperienza possono di per sé dare vita all'atteggiamento razionalista; infatti saranno sensibili ad esse soltanto coloro che sono disposti a prendere in considerazione l'argomentazione o l'esperienza e che quindi hanno già adottato questo atteggiamento”[16]. In altre parole: “Un atteggiamento razionalistico dev'essere già preventivamente adottato se si vuole che l'argomentazione e l'esperienza risultino efficaci, e quindi non può esso stesso essere fondato sull'argomentazione o sull'esperienza”[17].
Tuttavia da Kant sappiamo che ciò che non è fondato sull'esperienza e sull'argomentazione (fenomenologia) è metafisica e la ragione umana è impossibilitata a dimostrare razionalmente un assunto metafisico, solo la fede può farlo. Questo significa che perché si possa avere un atteggiamento razionalistico non si può che partire da un “un atto di fede: dalla fede nella ragione”[18]. Ed è una fede, è bene precisare, che non può che essere assunta come incontrovertibile, quindi infalsificabile. Questo è il primo scoglio saldo, un punto fermo nel mare del tutto falsificabile. Ma ciò apre la strada ad un ulteriore passo.
E' vero che l'etica non è una scienza, ma perché possa esistere la scienza e quindi una comunità di persone che fanno scienza, è necessario che vi sia una “base etica della scienza e del razionalismo”[19]. E qual'è questa base etica? La necessità di porre come incontrovertibile il fatto che esista una realtà indipendente dalla nostra mente, che questa sia ordinata razionalmente e che tale realtà sia comprensibile ad una mente umana e che questa, a sua volta, – e lo abbiamo accettato per fede – sia in grado di elaborare teorie razionali. E poi, si assume che fare scienza sia cosa buona e giusta e che questa possa contribuire al progresso dell'umanità. Inoltre, e questo è un punto essenziale, si assume la necessità del progresso, dato che – sostiene Popper – è sempre possibile tra due teorie scegliere qual'è la migliore. Questa è la fede secolare della città degli uomini di scienza.
Tutte queste sono asserzioni che devono essere vissute come non falsificabili, in caso contrario non vi può essere scienza: “senza la convinzione che con le nostre costruzioni teoriche sia possibile raggiungere la realtà, senza la convinzione nell'intima armonia del nostro mondo, non potrebbe esserci scienza. Questa convinzione, è, e sempre sarà, il motivo essenziale della ricerca scientifica”[20]. Questo significa, per usare le parole di Kant, che “la sapienza della natura, che meriti propriamente questo nome, presuppone in primo luogo la metafisica della natura (…). Tutti i filosofi della natura, che desiderano procedere matematicamente nelle loro ricerche, si sono quindi serviti (anche se inconsciamente) di principi metafisici; e dovevano servirsene, pur protestando solennemente contro ogni pretesa della metafisica sulla loro scienza (…). Così dunque i suddetti matematici non riuscirono affatto a fare a meno di principi metafisici che rendono il concetto del loro specifico oggetto, cioè la materia, adatto a priori ad essere applicato all'esperienza esterna; non potremmo quindi fare a meno del concetto di movimento, di riempimento dello spazio, di inerzia e così via”[21]. E' questa l'essenza di ciò che si definisce la scelta irrazionale o a-razionale della ragione.
Ora, questo significa che quella degli scienziati è una comunità retta da una costituzione composta di due parti: una dove sono scritti i principi etici ed non scientifici, in quanto non falsificabili, vissuti come sacri, ed una seconda parte, procedurale: il metodo scientifico vero e proprio.
Se “la società aperta è aperta al maggior numero possibile di idee e di ideali diversi e magari contrastanti. La società aperta è chiusa solo agli intolleranti”, questo significa che l'ideal-tipo della società aperta è costruito sugli stessi principi del metodo scientifico, anzi non è altro che l'estensione delle logiche della città degli uomini della scienza all'intera società. Il punto è che le varie definizioni di società aperta si sono spesso concentrate sulla parte seconda della costituzione della città della scienza: quella procedurale o metodologia. E per quanto riguarda la prima parte?
Sì perché se una base etica è essenziale per la città degli uomini della scienza, dove pur impera la legge della falsificabilità, ne consegue che questa è anche essenziale per l'esistenza di una società aperta. In altre parole, anche la società aperta non può sussistere senza un nucleo condiviso di valori che siano percepiti come non falsificabili, saldi, sacri, veri, certi.
In cosa consiste il nucleo di valori immodificabili di una società aperta? In primo luogo, ovviamente, nei valori della città della scienza. Ma non basta, infatti questi rimandano ad altro e Popper lo dice, c'è bisogno di un ulteriore elemento di fede e questa è “la fede nella ragione, nella libertà e nella fratellanza di tutti gli uomini: la nuova fede e, io credo, la sola fede possibile della società aperta”[22].
Si è fatto un ulteriore passo in avanti: la società aperta ha scolpiti nella propria costituzione la fede nella ragione, la fede nella libertà e nella fratellanza e quindi il principio evangelico-kantiano degli altri come fine e mai come mezzo (“devi sempre riconoscere che gli individui umani sono fini e che non devi mai usarli come meri mezzi ai tuoi fini”). Ma non basta.
Perché una società aperta possa stare in piedi deve aver costituzionalizzato la fede nell'uomo, o meglio la certezza che l'agire umano possa tendere al progresso e al miglioramento dell'esistenza, proprio come nella città della scienza gli uomini credono che la ragione possa sempre condurre al progresso. La società aperta, pertanto, deve vivere come certezza la capacità che l'azione umana possa fare in modo che il domani sarà meglio di ieri: la fede nel progresso umano e quindi la fede nella capacità di poter “padroneggiare l'avvenire”[23]. “E' questo ciò che ha sostituito la statica economica della società tradizionale – curtense o di sostentamento - dove il domani sarà identico all'ieri”[24], è questa una delle principali promesse della società aperta.
E questo perché se la società chiusa è dominata dalla cogenza dell'eterno ieri, la società aperta è costantemente proiettata nel futuro: vive nell'ansia benefica del fare domani: “il processo di uscita dalla religione è passato attraverso il ribaltamento dell'orientamento temporale dell'attività collettiva. All'opposto rispetto all'obbedienza incondizionata al passato fondatore, la storicità dei moderni proietta l'umanità in avanti, nell'invenzione dell'avvenire. All'autorità dell'origine, fonte dell'ordine immutabile chiamato a regnare tra gli uomini, sostituisce l'auto-costituzione del mondo umano nella durata, in direzione del futuro”[25]
Questo significa che sebbene la cogenza pubblica di un sacro trascendentale si è lentamente prosciugata fino a ridursi al foro interiore, non di meno, la società aperta per non trasformarsi in astratta o “atomica” ha bisogno di innalzare sugli altari della fede pubblica un nucleo di valori del tutto secolari ma vissuti in maniera del tutto sacra. Dello stesso parere sembra Alain Touraine quando scrive: “tutte le società si sacralizzano, ma le società europee hanno attinto la propria sacralità da se stesse. Essa non poggia né su un dio né sul movimento della storia e ancora meno su una situazione definita in termini naturali; la morale che elabora e che insegna è puramente civica”[26].
Questo significa che con la scomparsa dell'assoluto religioso, la società ha dovuto ricostruire un altro assoluto, senza il quale non vi è possibilità di vita. Un assoluto immanente e laico: ciò che in Occidente è stato sacralizzato, infatti, con la morte di Dio è l'uomo stesso e la sua capacità di progredire.
A testimonianza di ciò le parole di Stefan Zweig: “L'Ottocento con il suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via diritta ed infallibile verso «il migliore dei mondi possibili». Guardava con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, le loro carestie, rivoluzioni, come fossero state tempi in cui l'umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. Ora invece non era più che un problema di decenni, poi le ultime violenze del male sarebbero state del tutto superate. Tale fede in un progresso ininterrotto ed incoercibile ebbe per quell'età la forza di una religione; si credeva in quel progresso più che nella Bibbia ed il suo vangelo sembrava inoppugnabilmente dimostrato dai sempre nuovi miracoli della scienze e della tecnica”[27], “arcangeli del progresso”[28].
Questa, conclude Zweig, era “la religione dei nostri padri, la loro fede in una ascesa rapida e perenne dell'umanità”[29]. Una fede che la generazione delle due guerre mondiali era stata costretta ad abbandonare.
In maniera del tutto laica, pertanto, in questo modo la società aperta assolve ad uno dei bisogni essenziali per l'uomo che non ha più alle spalle la Tradizione della società chiusa: la necessità di guardare con speranza al futuro, la necessità dell'ottimismo: senza di esso è impossibile la vita. E questo perché se l'uomo della società tradizionale sente la tradizione come una “vis a tergo”[30], l'uomo della società aperta è costantemente inclinato sul futuro.
Questo nucleo di valori vissuti come infalsificabili e certi è il collante della società aperta: è l'aria che tiene in vita, quasi tutti, i suoi cittadini[31]. Perché quasi tutti?
Perché, storicamente e - fisiologicamente - il lavoro di secolarizzazione, la disintegrazione della società chiusa, retta dal sacro, e il processo di modernizzazione (ed in particolare una parte di esso, lo sviluppo economico), ha generato una reazione[32], il tentativo di riannodare il cordone ombelicale, di ricucire la confortevole placenta della società chiusa.
In altre parole, la società aperta genera fisiologicamente individui anomici: sono gli orfani di Dio, i terremotati della società chiusa, coloro che sono disgustati dalla laicità delle verità sacre della società aperta, intristiti dalla vuotezza dei riti democratici e animati da un odio profondo nei confronti della borghesia, che “è l'altro nome della società moderna”[33] e del capitalismo che “più che la creazione d'una classe è la creazione di una società nel senso più globale del termine”[34].
Odiano in altre parole gli agenti – borghesia e capitalismo – che hanno dissacrato la società chiusa, hanno “ucciso Dio” e hanno fatto evaporare dal mondo la certezza di un senso immanente e di un fine ultimo, metafisico, la cui certezza può essere dimostrata con la ragione. Odiano questi agenti di modernizzazione e di secolarizzazione perché portatori sani del virus che ha infettato le società sacre tradizionali, la ragione. E con la ragione non si può dimostrare un sacro metafisico.
Non può essere altrimenti. Scrive Kant: “La metafisica sinora non ha avuto un destino tanto favorevole, da permetterle di prendere la via sicura di una scienza; eppure essa è più antica di tutte le altre scienze e sussisterebbe ancora, quand'anche le altre dovessero venire completamente inghiottite nell'abisso di una barbarie che sterminasse ogni cosa”[35]. Tuttavia “non vi è alcun dubbio che il modo di procedere della metafisica sia stato sinora un semplice brancolare, e quel che è peggio, un camminare a tastoni tra semplici concetti”[36] e questo perché in quanto essere finito la ragione umana è impossibilitata a dimostrare razionalmente l'esistenza dell'infinito, e quindi di Dio: “è stato precluso alla ragione speculativa ogni progresso in questo campo del soprasensibile”[37], poiché “noi non possiamo avere conoscenza di alcun oggetto in quanto cosa in se stessa, ma solo in quanto esso è oggetto dell'intuizione sensibile, cioè in quanto apparenza. Di qui consegue allora certamente, che ogni possibile conoscenza speculativa della ragione è ristretta ai semplici oggetti dell'esperienza”[38]
Di qui il dramma: “perché allora la natura ha afflitto la nostra ragione con l'incessante aspirazione a seguire le tracce di tale cammino, come se si trattasse di uno dei suoi più importanti interessi. Di più, noi abbiamo davvero scarso motivo di riporre fiducia nella nostra ragione, se in questo campo, che è uno dei più importanti per il nostro desiderio di sapere, essa non soltanto ci abbandona, ma ci tiene a bada con miraggi ed alla fine ci inganna!”[39].
Detto in altri termini, l'uomo è lacerato da due dati che sono parte naturalmente costitutiva di sé, la tensione verso il cielo e l'essere irrimediabilmente inchiodato alla terra; o, parafrasando Kant, una disposizione naturale alla metafisica[40] ed una altrettanto naturale ragione fenomenologica.
E questo significa che nonostante la ragione umana non possa giungere ad alcuna certezza metafisica l'uomo ontologicamente tende ad essere un “arrampicatore metafisico”[41], dato che “una qualche metafisica esisterà sempre negli uomini”[42], che non potrà tuttavia che essere basata su “asserzioni infondate”[43].
In conclusione alla ragione umana è preclusa la possibilità di una dimostrazione ontologica[44] dell'esistenza di Dio e tutti gli sforzi impiegati in questo senso “sono sprecati. E un uomo, partendo da semplici idee, potrebbe tanto poco arricchirsi di conoscenza, quanto un mercante potrebbe arricchire il proprio patrimonio, nel caso che, per migliorare il suo stato, volesse aggiungere alcuni zeri al suo fondo di cassa”[45]. Di conseguenza anche la prova cosmologica[46] “la seconda strada che la ragione speculativa prende per dimostrare l'esistenza dell'ente supremo, non soltanto è illusoria quanto la prima, ma dev'essere in più biasimata per il fatto che commette un ignoratio elenchi, promettendoci di percorrere un sentiero e riportandoci invece, dopo un piccolo giro, di nuovo al vecchio sentiero, che per causa sua avevamo abbandonato”[47], la prova cosmologica alla fine si immette nel percorso tentato dalla prova ontologica.
Scrive Kant: “Entrambe le prove sin qui condotte erano tentate in modo trascendentale, cioè indipendentemente dai principi empirici”. Questi due tentativi quindi cercavano di dimostrare l'esistenza di Dio fuori dal mondo, ma ciò è impossibile per la ragione. Eccola allora la terza via, la dimostrazione cioè dell'esistenza di un telos nel mondo che conduca a Dio: “Se il risultato richiesto (la dimostrazione certa dell'esistenza di un ente supremo) non può essere fornito né dal concetto di cose in generale, né dall'esperienza di una qualche esistenza in generale, rimane ancora un mezzo, cioè cercare di vedere, se una esperienza determinata – ossia l'esperienza delle cose del mondo presente, la loro costituzione e il loro ordinamento – non fornisca una ragione dimostrativa, che possa darci con sicurezza la convinzione dell'esistenza di un ente supremo”[48]. Questa dimostrazione, avverte Kant, “merita sempre di essere nominata con rispetto”[49], non solo perché “essa è la più antica, la più chiara, quella massimamente conforme alla comune ragione umana”, ma anche perché la più umana: “alla ragione basta gettare uno sguardo alle meraviglie della natura, e basta ammirare la maestà dell'universo, per sollevarsi da grandezza a grandezza sino alle più alte di tutte, e dal condizionato al creatore supremo e incondizionato”[50].
Tuttavia di fronte alla grandiosità del creato si specchia la finitudine umana: “il mondo presente ci dischiude una scena così smisurata di varietà, di ordine, di finalità, di bellezza (…) che nonostante le conoscenze, che il nostro debole intelletto ha potuto acquistare al riguardo, ogni linguaggio, di fronte a tante meraviglie inconcepibilmente grandi, perde il suo vigore, ogni numero la sua capacità di misure, e persino i nostri pensieri perdono ogni limitazione, cosicché il nostro giudizio su questo punto si spegne in uno stupore muto, ma tanto più eloquente. Noi vediamo ovunque una catena di effetti e di cause, di fini e di mezzi, di regolarità nel nascere e nel perire. E in quanto nulla è entrato da sé nello stato in cui si trova, allora ogni cosa accenna sempre ulteriormente ad un'altra cosa come sua causa: questa a sua volta necessita proprio la medesima ricerca. In tal modo, l'universo si sprofonderebbe nell'abisso del nulla, se noi non ammettiamo un qualcosa, che, sussistendo per se stesso, originariamente e indipendentemente, al di fuori di questa infinita contingenza, sostenga l'universo e, come causa della sua origine, ne assicuri al tempo stesso la durata”[51].
Eppure tale tentativo “potrà tuttal'più provare un architetto del mondo (…) ma non proverà un creatore del mondo”[52]. Il che significa che si potrà giungere a comprendere il modo in cui il mondo è ordinato e le leggi a cui esso è sottoposto, ma mai si potrà rispondere alla domanda perché esso esiste ed in esso la vita. E questo perché “l'idea trascendentale di un originario ente necessario, sufficiente per tutte le cose, è così smisuratamente grande, così sublimemente al di sopra di tutto ciò che è empirico (sempre condizionato) che da un lato non si potrà trovare mai abbastanza materia nell'esperienza, per riempire un tale concetto, e dall'altro lato si procederà sempre a tastoni fra ciò che è condizionato, e si cercherà sempre invano l'incondizionato, di cui nessuna legge di una qualsiasi sintesi empirica potrà fornirci né un esempio né la minima indicazione”[53].
Kant, dunque, come un rasoio recide qualsiasi legame razionale tra Dio e l'uomo. Questi non ha nessuno strumento razionale per dimostrare la necessità dell'esistenza di un ente che sfugge alla caducità, il che d'altra parte significa che recide qualsiasi possibilità all'uomo di ricercare una causa dell'esistenza del mondo, e quindi un fine, e quindi il perché della vita stessa. In breve, l'intelletto umano non ha nessuno strumento per una dimostrazione razionale delle ragioni della vita e del mondo. Il che significa che la natura è muta circa le domande ultime dell'uomo. Di qui il grande scisma, lacerante “ho dovuto eliminare il sapere – dice Kant – per fare posto alla fede”[54].
Ora visto che l'uomo non può vivere senza fede, il passaggio consequenziale e razionale è la sostituzione di un sacro trascendente (un ente supremo fuori dal mondo), con un sacro immanente (la fede nell'uomo), quindi il passaggio dalla fede sacra della società chiusa, alla fede profana della società aperta.
E' normale che questo surrogato “troppo umano” del sacro non possa andare giù a qualcuno, di qui la comparsa degli orfani di Dio, gli anomici della società aperta, coloro cioè che non hanno introiettato il nuovo sacro, e “provano un violento disgusto per tutti i valori esistenti”[55], valori che sono stati elaborati “dalla mentalità e dai principi morali della borghesia”[56]. Per tale motivo, gli anomici della società aperta vivono il loro stato come un dramma esistenziale: lo smarrimento in un mondo impossibilitato a dare la certezza di un telos, quindi dominato dal nichilismo.
La loro riflessione è, prima di tutto, quindi una condoglianza cui segue un processo che può portare ad una elaborazione del lutto in senso stoico (Max Weber e per certi versi lo stesso Nietzsche) o ad un rifiuto del lutto e alla ricerca comunque di un senso.
Se fuori dal mondo la ragione non può andare, se la natura è muta, resta una quarta via: la storia. Di qui il tentativo di cogliere un senso immanente nel dispiegarsi della storia umana, in altre parole lo storicismo di Platone e Marx: l'inversione dell'esistente per ritornare alla Repubblica per il primo, l'accelerazione dell'esistente per andare verso la società comunista per il secondo[57]. Il che significa abbandonare la società aperta per ritornare alla società chiusa. Come?
Eliminando i responsabili della dissacrazione, coloro cioè che hanno assurto a propria guida la ragione (borghesia, capitalismo e quindi proprietà privata) e risacralizzando il mondo, tramite un surrogato della fede: la società comunista, il Reich Millenario o il Volck, la sapienza dei re-filosofi di Platone: comunque un qualche equivalente funzionale della fede ormai, irrimediabilmente, evaporata.
Il punto è che finché i valori laici della società aperta (fede nel progresso e nell'umano) imperano, le analisi e i programmi degli anomici restano voci di singoli nel deserto. Tuttavia può accedere che eventi traumatici spacchino il nucleo della fede laica della società aperta. Se ciò accade, questa si disintegra e i suoi cittadini diventano una massa sbandata, impaurita ed angosciata, in cui gli uomini perdono “definitivamente il loro posto nell'universo”[58]: una “società atomizzata” e cioè una società “in cui gli individui vivono insieme non avendo nulla in comune, senza condividere una porzione visibile e tangibile del mondo”[59]. A questo punto, visto che nessuno può vivere senza una fede che dia un senso al futuro, le coscienze collettive entrano in sintonia con le voci dei profeti del deserto, ne vivono lo sconforto e lo smarrimento per la perdita della fede e diventano sensibili agli appelli palingenetico-reazionari (“Solo gli individui isolati possono essere dominati totalmente”[60]), ritornando subito a rifugiarsi nel tepore deresponsabilizzante della società chiusa. E' già accaduto.
Se la fede evapora
Il XIX secolo si era aperto con la celebrazione dei progressi occidentali all'Esposizione Universale di Parigi del 1900. “Nell'epoca bella della modernità trionfante l'oro garantiva la moneta, non era necessario il passaporto per attraversare i confini degli Stati europei, erano frequenti gli scambi accademici di studenti e professori tra la Francia e la Germania, la Germania e la Gran Bretagna. Monarchi ed imperatori, spesso imparentati, si scambiavano festose visite di Stato, e non erano escluse le visite di teste coronate nella Francia repubblicana, né visite di presidenti francesi nei regni e negli imperi d'Europa”[61]. Un'immagine dell'Europa del XXI secolo.
E la nostra stessa fede in un futuro migliore: “quarant'anni di pace avevano rafforzato l'organismo economico dei paesi, la tecnica aveva accelerato il ritmo della vita, le scoperte scientifiche inorgoglivano lo spirito delle generazioni: comincia un'ascesa quasi contemporaneamente sensibile di tutte le nazioni della nostra Europa. Le città si facevano di anno in anno più popoloso e più belle. (…) Dovunque si progrediva. Chi osava, guadagnava. Chi acquistava una casa o un libro raro, li vedeva crescere di valore; quanto più largamente e audacemente si affrontava un'impresa tanto più redditizia essa era. In tal modo s'era diffusa una beata spensieratezza: che cosa infatti avrebbe potuto interrompere quel progresso, fermare quello slancio che sa sé stesso attingeva sempre nuove energie? Mai l'Europa fu più forte, più ricca, più bella, mai più fervidamente credette in un ancor migliore avvenire; nessuno all'infuori di pochi vecchi e rinsecchiti osava rimpiangere «il buon tempo antico»”[62]
Scrive Zweig: “Se tento di trovare una formula comoda per definire quel tempo che precedette la Prima guerra mondiale, il tempo in cui sono cresciuto, credo di essere il più conciso possibile dicendo: fu l'età dell'oro della sicurezza. (…) Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell'età della ragione. Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra i popoli europei, così come non si credeva più nelle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni e le confessioni religiose avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza, i beni supremi”[63].
Come non intravedere in queste parole alcuni dei tratti degli anni novanta del XX secolo e quel diluirsi del mondo nella fine della storia di Fukuyama? E che cos'è la sicurezza di Zweig se non la certezza del progresso umano in cui si credeva più che nella Bibbia, come si diceva poc'anzi?
Tuttavia, “l'Europa capace di stupire il XIX secolo per la sua ricchezza, l'inventiva e la potenza, cadde in preda a un'irresolutezza crescente e a timori sul suo futuro. La Grande guerra non fece altro che accrescere questa sensazione del passaggio da una età di certezze a una di paurosa instabilità”[64] L'Europa che aveva celebrato le sue sorti magnifiche e progressive nell'Esposizione Universale di Parigi è franata nelle trincee della prima guerra mondiale e nella crisi economica post bellica. Questi due fatti hanno disintegrato quel nucleo di valori “profani” ed umani: la fede secolare della società aperta.
Milioni di uomini, infatti, per la prima volta hanno visto con i propri occhi e vissuto sulla propria pelle la falsificazione degli assiomi di quella società aperta: nelle trincee sono andati a scuola di nichilismo, trovandosi per la prima volta “faccia a faccia la morte organizzata”[65]: “tutte le strade convergono in nero marciume”[66], scriveva il poeta austriaco Georg Trakl, morto suicida sul fronte orientale. “La guerra, per chi ebbe la ventura di viverla sino in fondo, si rivelò qualcosa di macabro, sporco, abbrutente, un deserto morale. (…) fu una conferma della premonizione nietzschiana del declino, dell'evoluzione in negativo”[67].
La trincea ha tradotto, inoculato, attraverso la diretta esperienza, in milioni di uomini Kant che ha negato Dio all'uomo e Nietzsche che ne ha proclamato la morte e inteso le conseguenze [68] e il Weber che scrive che la scomparsa dell'Assoluto costringe l'Occidente a “vivere in un'epoca senza Dio e senza profeti”[69]. Milioni di persone hanno contemporaneamente assistito in diretta alla falsificazioni della loro fede sacra o laica, con il risultato di uno sradicamento collettivo, dando il via ad un processo di atomizzazione che ha aperto per le masse la porte al nichilismo, poiché “l'orrore del periodo bellico, i gas, le bombe, la fame, rivelarono lo spessore esiguo della vernice che la civiltà poteva rappresentare”[70]
Per questo non si può condividere la tesi di Hermann Rauschning[71]: il nichilismo come programma dell'azione politica dei totalitarismi. L'Europa, dopo Kant, galleggia sul nichilismo e la guerra affonda il guscio su cui si è aggrappata, con la sua fede nell'uomo e nel progresso, per questo dopo la guerra gli europei “si sentivano sospesi nel nulla”[72].
Pertanto, la perdita di tutte le fedi è il presupposto necessario per lo stato nascente del nazismo (così come per gli altri totalitarismo, almeno quello fascista, visto che la prese del potere a Mosca da parte dei bolscevichi fu “solo” un fortunato colpo di Stato) e il suo programma è la creazione di una nuova fede, scacciando dal tempio della nazione tedesca i falsi idoli e gli agenti infettivi della società borghese, che è “da sempre il bersaglio comune per tutti gli infelici della modernità”[73]
Il punto è che la grande guerra è solo l'ultimo dei grandi rivolgimenti che hanno scosso la coscienza europea. Questa, infatti, “a partire dal XVIII secolo, fu traumatizzata da tre sconvolgenti processi: a) la Rivoluzione francese con la quale iniziò la guerra fra i Geni invisibili della città; b) la rivoluzione industriale, che mise in moto la macchina della mercatizzazione universale; c) la crisi del sacro, conseguenza inevitabile della devastante critica illuministica del cristianesimo. Questi tre processi, intrecciandosi, crearono uno stato di anomia particolarmente acuto e intensificarono il desiderio di un ordine di cose radicalmente altro che alimentò potentemente quella che Talmon ha chiamato la «religione della rivoluzione». Questa fu percepita di generazione in generazione come la soluzione globale della triplice crisi che l'Europa stava vivendo – la crisi di legittimazione, la crisi di redistribuzione e la crisi di secolarizzazione - , la grande operazione chirurgica che avrebbe finalmente risanato il corpo sociale”[74]. Nel 1914, infine, la guerra.
Una volta scoppiata, la guerra dimostrò di possedere “una natura «irreversibile», quale mai si era riscontrata in passato: tutte le parti mirarono alla reciproca distruzione, indipendentemente dalle conseguenze che sarebbero potute derivarne”[75]. Il risultato fu lo sfiancamento di vincitori e vinti “in proporzioni assai peggiori di quanto non avessero predetto persino i più pessimisti”[76].
Ed è da questo sconquasso che spunta “la novità della situazione europea creata dalla guerra: l'improvvisa ripresa della passione rivoluzionaria, che gli uomini del XIX secolo avevano creduto di dominare”[77]. In Europa la guerra ha sconvolto ogni cosa “ha agito talmente in profondità sulla più brillante delle civiltà moderne da non lasciare nulla immutato, segna l'inizio del declino dell'Europa come centro della potenza mondiale, inaugurando al tempo stesso il feroce secolo (...), saturo della violenza suicida di nazioni e regimi”[78].
In questo senso ha perfettamente ragione Zeev Sternhell quando afferma: “Nel fascismo tra le due guerre – nel regime mussoliniano come negli altri movimenti fascisti dell'Europa occidentale – non si troverà una sola idea importante che non sia maturata lentamente nel corso del quarto di secolo che precede l'agosto del 1914”[79]. La Grande Guerra, infatti, ha avuto la funzione di inoculare il nichilismo in milioni di fanti attraverso i suoi orrori e attraverso la disumanità della trincea, ha creato le basi del consenso: “quando la Grande Guerra cessò, l'uomo moderno aveva perso l'orgoglio della propria superiorità, era angosciato dalla visione di un futuro senza speranza, dove la nozione stessa dell'uomo moderno quale elevata espressione di una superiore civiltà era stata brutalmente annientata dall'esperienza della guerra. L'uomo europeo, l'uomo della modernità, nel momento dell'apoteosi della sua civiltà, si era rivelato un barbaro capace di inumana ferocia”[80]. Svaniva non solo la fede nel progresso, ma sbiadiva la stessa essenza dell'uomo quale centro del creato: nelle parole del soldato Ernst Jünger dal fronte occidentale: “Qui l'uomo non può altro che ritornare ad essere un frammento della natura, la quale gli impone le sue leggi imperscrutabili e se ne serve come di un essere fatto di sangue e muscoli, artigli e denti”[81]: è la natura “disumana” di Kant.
La guerra falsifica le verità “profane” della società aperta del XIX secolo. Il risultato è il disorientamento, lo sfaldamento, una crisi morale, dato che senza verità non vi può essere morale. “Noi, le civiltà, ora sappiamo che siamo mortali”[82], scriveva Paul Valery, “noi ora sappiamo che l'abisso della storia è grande abbastanza per tutti. Sentiamo che una civiltà è fragile come una vita”[83].
La crisi prodotta dalla guerra assume così il carattere, commenta Gentile, incrociando i pensieri di Valery di “una «crisi del pensiero» una crisi della coscienza europea, le cui radici erano nella modernità dell'uomo europeo, cioè delle stesse qualità che sono il «fattore determinante della superiorità dell'Europa», «l'avidità attiva, una curiosità ardente e disinteressata, la felice combinazione di immaginazione e rigore logico, un tipo di scetticismo non pessimista congiunto ad un misticismo non passivo». Queste qualità avevano prodotto una civiltà versatile, dinamica, espansiva costituita dalla «coesistenza delle idee più dissimili», di principi di vita e di conoscenza fra di loro completamente opposti e questo era «ciò che caratterizzava un'epoca moderna». (…)”[84]. Una società dove convivevano “innumerevoli idee: dogmi, filosofie, idee eterogenee; le trecento formule per spiegare il mondo, le mille e una sfumatura di cristianesimo, le due dozzine di positivismo”[85].
Una società aperta, dunque, che la guerra aveva dissolto fino ad arrivare al punto che nei contemporanei sorgesse il dubbio che quella civiltà fosse costitutivamente votata alla distruzione più che al progresso, che nei suoi elementi caratterizzanti ci fosse già racchiuso il germe della decadenza: scriveva Albert Schweitzer “è chiaro a tutti che la morte della civiltà è data dal tipo del nostro progresso. Ciò che rimane non è più saldo, resta in piedi perché non è stato ancora esposto alla pressione che ha fatto cadere il resto ma, costruito com’è sulla ghiaia, facilmente verrà trascinato via alla prossima frana”[86].
Non solo: “la guerra contribuì in misura assai maggiore di qualsiasi singolo evento a consolidare l'impressione della crisi, di forze fuori di ogni controllo, di un mondo perduto per sempre (…) Il fatto puro e semplice che la guerra ci fosse stata, che i popoli che si consideravano portatori della civiltà moderna si fossero abbandonati a una simile orgia di sangue e distruzione, rimetteva in discussione la capacità di questi stessi stati di ricostruire il mondo che avevano distrutto (…) L'idea di progresso come qualcosa in qualche modo di inarrestabile e prestabilito fu moralmente annientata negli anni Venti”[87].
Frantumati i valori che tenevano unita la società aperta essa stessa si frantuma e la massa che ne consegue non può che essere sensibile alle sirene dei “grandi tentativi (falliti) di dare risposta ai più radicali dilemmi della modernità”[88].
Se così stanno le cose allora aveva ragione Croce quando sosteneva che le reazioni rivoluzionarie del fascismo e del nazismo nacquero da “uno smarrimento di coscienza, una depressione civile e una ubriacatura, prodotta dalla guerra”[89], dalla rottura del quadro etico sino ad allora vigente. In altre parole dalla frantumazione della fede secolare[90]. Una situazione che non fu certo solo italiana “ma di quasi tutti i popoli che avevano partecipato alla guerra”[91], proprio perché la guerra ha falsificato quei valori che costituivano il nucleo delle società aperte europee, lasciando il vuoto del nichilismo. Né fu la reazione di una sola classe: “Chi rammenta – scrive Croce – le origini e il primo prorompere del fascismo in Italia, e ne ha seguito con attenzione lo svolgimento o piuttosto le vicende e le avventure, sa che il fascismo trovò i suoi fautori e sostenitori in tutte le classi e in tutti gli ordini economici ed intellettuali, in industriali e in agrari, in clericali e in vecchi aristocratici, in proletari e in piccoli borghesi, in operai e in rurali; ma trovò del pari oppositori ardentissimi in tutte queste classi sociali”. Croce continua poi per dimostrare l'origine non classista del fasciamo citando P. F. Drucker[92]. Ma più oltre tocca il punto centrale: “Il fascismo e il nazismo furono un fatto o un morbo intellettuale e morale, non già classistico ma di sentimento, di immaginazione e di volontà genericamente umana, una crisi nata dalla smarrita fede non solo nel razionale liberalismo ma anche nel marxismo, che era a suo modo razionale sebbene materialistico (…)” così l'appello fascista riuscì a conficcarsi: “nel vuoto che si era aperto nelle anime, nella depressione della volontà” conquistando “la fiducia delle masse”[93]. “Insomma – conclude Croce – anche innanzi al fatto del fascismo, è ingenuo credere di aver trovato la radice nei superficiali e meccanici concetti delle classi economiche e delle loro antinomie, ma bisogna scendere molto più in fondo: nei cervelli degli uomini; e colà scoprire il male, e colà (ed è certamente difficile) esercitare la sola cura che abbia speranza di riuscire salutare”[94].
Il male nei cervelli degli uomini non è altro che la perdita nella fede nell'uomo e nella certezza del progresso. Solo dopo che ciò avviene si inizia a sentire come insopportabile il peso, lo stress della civiltà, talmente insopportabile da abbandonarsi alla rivolta contro la civiltà, è questa credo la radice esistenziale del consenso dei movimenti totalitari.
In questo senso i totalitarismi nascono dalla necessità di sacralizzare nuovamente, seppur con un surrogato, il mondo: costruendo un qualcosa che si ponesse a “a cavalcioni dell'abisso”[95] (e cioè del nichilismo) così Burckhardt definisce lo stesso Hitler.
Infatti, come scrive Fest, “Hitler come persona resta, nel corso degli anni, straordinariamente scolorito ed irrilevante”[96]è un anomico con sogni di palingenesi nei confronti di un mondo che lo respingeva. Era uno sbandato in una società che aveva ancora salda la fede nel proprio progresso. Pertanto egli poté “essere l'espressione di una basilare concordanza con lo spirito e la tendenza dell'epoca, oltre che la capacità di rivelare la tendenza”[97], ma solo quando quella fede andò in frantumi per tutti, poiché egli stesso aveva già vissuto prima ed in solitudine quello scoramento, quella delusione e quello sbandamento che dopo la guerra e dopo la crisi economica aveva coinvolto un intero popolo. “Solo a contatto con l'epoca acquista tensione e fascino. Hitler possedeva in larga misura quello che Walter Benjamin ha definito «carattere sociale»: una fusione pressoché esemplare delle paure, dei sentimenti di protesta e delle speranze dell'epoca; e tutto questo, senza dubbio enormemente esasperato, deformato, dotato di molteplici risvolti devianti, e tuttavia mai privo di nesso, né di incongruenze con lo sfondo storico”[98]
In altre parole i totalitarismi, cercano di ritornare con un linguaggio laico, ma di tipo collettivistico “alla società religiosa, alla sua coerenza e alla convergenza tra le sue diverse parti. E' il segno di come, a dispetto del rifiuto ufficiale quel modello rimanesse ben radicato nelle menti, di come fosse ancora ben presente in seno alle collettività che possono ricorrervi in caso di bisogno”[99]. E questo perché “questa civiltà non si è ancora totalmente ripresa dallo shock della sua nascita; il passaggio cioè dalla società tribale o «società chiusa», con la sua sottomissione alle forze magiche, alla «società aperta» che libera le capacità critiche dell'uomo”[100]
E' per questo che tale “shock di passaggio è uno dei fattori che hanno reso possibile l'emergere di quei movimenti reazionari tesi a rovesciare la civiltà per tornare al tribalismo. Ed esso rivela pure che quello che noi, oggigiorno, chiamiamo totalitarismo appartiene a una tradizione che è altrettanto vecchia o altrettanto giovane che la nostra stessa civiltà”[101].
A tale proposito la Arendt scrive: “Come per i movimenti totalitari siano necessarie, più che l'assenza di strutture, l'atomizzazione e l'individualizzazione della moderna società di massa, si può vedere dal confronto fra il nazismo e il bolscevismo, che cominciarono la loro azione in circostanza estremamente diverse. Per trasformare la dittatura rivoluzionaria di Lenin in un regime totalitario, Stalin dovette prima creare artificialmente quella società atomizzata che in Germania per i nazisti era stata creata dagli avvenimenti storici”[102].
Così le masse atomizzate della Arendt in balìa del nichilismo si sono aggrappate al primo scoglio che appariva saldo, si sono lanciate in un gigantesca “rivolta contro la civiltà”[103] buttandosi “ovunque avvertissero l'occasione di manifestare la loro ostilità con l'intero sistema”[104]. E questo perché: “Il fatto che la stessa sorte avesse colpito con monotona ma astratta uniformità intere masse di persone non impedì a queste di giudicare il proprio caso individuale come un fallimento e il mondo come il regno dell'ingiustizia”[105].
La trincea e gli orrori della guerra, in altre parole, hanno accordato le coscienze della maggioranza sui toni di quella minoranza che dal deserto invocava la pochezza e l'ingiustizia del mondo imperante e ne vagheggiava la palingenesi, gonfiandosi inoltre del turbamento di quanti avevano vissuto come una lacerazione il processo di modernizzazioni e secolarizzazione che “per tante piccole comunità aveva rappresentato un ribaltamento di tutti i propri punti di riferimento nella realtà (…) nella sua spietata ricerca di un mondo materiale, razionale, e l'esaltazione dell'ambiente anonimo, spiritualmente disgregato della città e della fabbrica”[106].
Proprio questo aveva colpito Hitler: “Nulla è più ancorato e radicato nel nostro intimo. Tutto è superficie, ci sfiora appena. Il pensiero del nostro popolo si fa inquieto e frettoloso. Tutta la vita è lacerata”[107] Così quella particolare forma di anomia dei rivoluzionari, che non sfociava nel suicidio, ma nell'assassinio dell'intero ordine sociale, diventava l'essenza del mondo uscito dalla guerra, ridando una speranza ai naufraghi della modernità.
Alle ferite morali della guerra si aggiunsero quelle della crisi economica, che provocò “una caduta netta della fiducia nel sistema capitalista in quanto tale. (…) La cruda realtà della crisi pose fine alla frivola euforia dei consumi e al parossismo di speculazioni smodate che l'alimentava. Lo shock fu enorme. Il disastro sociale che ne seguì fece passare molti intellettuali al comunismo o al fascismo, nella convinzione che qualsiasi altro sistema sarebbe stato migliore di uno così evidentemente sregolato e distruttivo”[108].
La risposta dei totalitarismo consisteva, come si accennava in precedenza, nello sgombrare il mondo degli agenti della dissacrazione (la ragione dei philosophes e la borghesia) ed allo stesso tempo nell'instaurazione di una nuova fede.
Sotto il primo tipo rientrano posizioni che sono comuni a tutti e tre i grandi tentativi e che, come sottolinea Sthernell, affondano le proprie radici nell'humus culturale ante guerra: il disprezzo per il vecchio mondo borghese.
In primo luogo l'antimaterialismo, da intendersi come “il rifiuto dell'eredità razionalista, individualistica e utilitaristica dei secoli XVII e XVIII. In termini di filosofia politica, l'antimaterialismo consiste in un'opposizione recisa e totale alla visione dell'uomo e della società elaborata nel periodo che va da Hobbes a Kant, dalle rivoluzioni inglesi del XVII secolo fino a quella americana e francese. In termini di pratica politica, l'antimaterialismo predica invece il rifiuto dei principi messi in atto per la prima volta alla fine del Settecento e applicati cento anni dopo su scala assai maggiore dalle democrazie liberali dell'Europa occidentale. Si tratta dunque di un attacco complessivo contro la cultura politica dominante alla fine dell'Ottocento e all'inizio del nostro secolo, contro i suoi fondamenti filosofici e i suoi principi, tanto nella teoria che nell'esecuzione effettiva. Non vengono messe in dubbio soltanto la dottrina dei diritti naturali e quella del primato dell'individuo, ma tutte le strutture istituzionali della democrazia liberale”[109].
Per Lenin, ad esempio, la democrazia era un semplice trucco borghese: “decidere una volta ogni quattro anni quale membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo nel parlamento: è questa la vera essenza del parlamentarismo borghese, non soltanto nelle democrazie parlamentari costituzionali, ma anche nelle repubbliche più democratiche (…) Senza dubbio la via d'uscita dal parlamentarismo non è nel distruggere le istituzioni rappresentative e il principio di eleggibilità, ma nel trasformare queste istituzioni rappresentative da mulini di parole in organismi che «lavorino» realmente (…) Considerate qualsiasi paese con un sistema parlamentare, dall'America alla Svizzera, dalla Francia all'Inghilterra, dalla Norvegia e così via: il vero lavoro di «Stato» si compie tra le quinte e sono i ministri, le cancellerie, gli stati maggiori che lo compiono”[110]. Per Engels “il Parlamento è un ciarlatorio nazionale” in cui si svolge una “tediosa battaglia di parole”[111]. Stessa cosa per i fascisti: nient'altro che vecchia politica sempre pronta a scendere ad insipidi compromessi. Per Hitler la democrazia parlamentare era semplicemente spregevole.
Era una concezione molto diffusa in quegli anni: “Un governo fatto di commissioni e discussioni sembrava particolarmente inadatto a far fronte ai problemi dirompenti della rivoluzione sociale e della guerra patriottica (…) per tutto il corso degli anni tra le due guerra ci furono movimenti intellettuali in tutt'Europa che sostenevano l'idea di un qualche genere di «ordine» politico, basato sul principio d'autorità e su un governo attivo e decisionista, dovesse soppiantare il parlamentarismo”[112].
Non poteva essere diversamente in quanto tutti e tre i grandi totalitarismi avevano in comune “il ripudio della versione mondiale del liberalismo individualistico e l'opposizione alla politica parlamentare che ne è l'espressione politica”[113]
Altro elemento comune è l'anti-intellettualismo, da intendersi come rifiuto del “razionalismo (…) un vero e proprio processo allo spirito critico ed ai suoi effetti, in nome dell'istinto, del sentimento intuitivo e irrazionale, dell'emozione e dell'entusiasmo, pulsioni profonde che determinano il comportamento umano e costituiscono la realtà, la verità, e, nello stesso tempo la bellezza delle cose. Il razionalismo è buono per i déracinés, fiacca la sensibilità, uccide l'istinto e non può che annichilire le forze motrici e attive della nazione”[114]. Sternhell fa riferimento in primo luogo al Fascismo, ma in questo ambito, il discorso vale anche per il comunismo e il nazismo. A sinistra ci si appellava “a Marx contro il razionalismo settecentesco, contro Descartes, l'intellettualismo, il positivismo...”[115]. In questo senso il marxismo fu “una macchina da guerra contro la democrazia borghese”[116], anzi contro l'intera modernità, dato che la finalità della rivoluzione “non è quella di prolungare, né di assecondare la modernità, ma quella di abolirla”[117] In quanto prodotto di quel mondo borghese che viene vissuto come “intrinsecamente malvagio, anzi perverso. In particolare, in Marx ha tutti i tratti che René Guenon ha attribuito all'anticristo”[118]. Un mondo che si è macchiato del più grave dei peccati: con il “denaro ha avvilito tutti gli dei dell'uomo e li ha trasformati in merce”[119]. A destra, invece, ci si appellava alla comunione quasi mistica tra Volk e natura, per rimarginare ciò che era stato reciso dalla ragione[120].
L'altro obiettivo dei totalitarismi è la restaurazione del sacro[121], il che in altre parole, parafrasando Toynbee, non significa altro che una reazione zelota che è riuscita a conquistare le coscienze del proletariato interno e che prova a richiudere la società aperta, tentando così di “ricreare artificialmente (…) i vincoli comunitari lacerati dall'avanzata del mercato”[122]. E ciò che caratterizza il proletariato interno “non è la povertà né la nascita umile, ma la coscienza – e il risentimento che questa ispira – di essere diseredato dal suo posto ancestrale nella società”.[123]
Ed infatti, “mentre Cartesio sottolineava la legittimità del dubbio e il diritto dell'individuo pensante, il totalitarismo moderno ha riaffermato una pretesa all'assolutismo analoga a quella della fede medievale. La visione della vita, per coloro i quali hanno accettato il fascismo o il comunismo, non ha nulla in comune con la tradizione occidentale della ragione”[124].
Si tratta quindi di un'opera titanica per risacralizzare il mondo riportando in dietro le lancette della storia al tempo dell'unità retta e governata dalla tradizione, vissuta come sacra. Una unità che è stata infranta proprio dall'avvento della ragione e di chi ne ha fatto la guida per il successo mondano il mercante/borghese: “in effetti, la rivoluzione silenziosa attuata dalla borghesia imprenditoriale non si è limitata a scalzare progressivamente il modo di produzione feudale, costitutivamente statico, e a sostituirlo con un modo di produzione autopropulsivo; ha fatto qualcosa di più radicale e sconvolgente: rendendo sovrano lo spirito utilitaristico e razionalizzatore, ha profanato ogni cosa e ha eliminato la possibilità di vivere la dimensione sacra dell'esistenza. Così l'infinita capacità di manipolare le cose attraverso l'apparato scientifico tecnologico e l'altrettanto infinita capacità di produrre merci ha convertito il mondo in un sistema di oggetti disertato dagli Dei e da tutto ciò che può dare un significato assoluto alla vita”[125].
A tale proposito è significativo che anche Rauschning, che pure lesse la Weltanschauung del nazismo solo come un oppio per conquistare il consenso, noti come: “Hitler venga consapevolmente e sistematicamente divinizzato agli occhi della massa. Si tratta di uno dei mezzi più efficaci di cui si servono i nazisti, l'elevarlo al livello di unico salvatore. «Tutti noi su questa terra crediamo ad Adolf Hitler, nostro Führer», e noi dichiariamo «che il nazismo è la sola fede che possa condurre il nostro popolo alla felicità». Si tratta di affermazioni ufficiali dell'élite del partito. La figura messianica del Führer è il nucleo imprescindibile della sua propaganda. (…) Ancora prima della presa del potere un nazista di primo piano mi ha espresso la sua opinione sulla figura del Führer, sostenendo che questa debba sempre di più ritirarsi in una sfera nascosta, segreta. Egli potrà manifestarsi con azioni sorprendenti e rari discorsi solo in momenti cruciali, nei quali si compie il destino della nazione. Altrimenti dovrà ritirarsi come il Creatore dietro la creazione, per accrescere il segreto e l'efficacia. La rarità della sua apparizione renderà anche il solo fatto di mostrarsi in pubblico un vero e proprio evento. (…) E, diceva quel vecchio camerata, gli sembrava che, nel momento decisivo per la nazione, il Führer debba essere sacrificato, perché la sua opera venga compiuta, sacrificato dai suoi stessi fidi camerati. Solamente quando Hitler sarà diventato una figura mitica tutta la sua magia raggiungerà la massima potenza. Tali affermazioni – conclude Rauschning – sono sincere e convinte. Alla loro base vi è una fede, allora ancora schietta, nella missione spirituale del nazismo”[126]. Bisognava fondare una nuova fede e una nuova Chiesa: non a caso“Hitler desidera che i punti programmatici del nazismo vengano applicati con la stessa devozione con cui si seguono le prescrizioni religiose date dalla Chiesa e si recita il credo”[127]. Stessa aspirazione ebbe il comunismo: “ciò che vi è di più bello – dirà Trotsky – e di più nobile nelle antiche religioni e nella dottrina di Cristo si trova incarnato nella nostra dottrina del socialismo”[128].
E' un elemento comune a tutti i movimenti che tentano di ristrutturare la società chiusa infranta dagli agenti della modernizzazione e quindi alla morte di Dio. Sul punto Mosse è chiarissimo: “si dovevano inventare nuove feste, nuovi gesti e forme che a loro volta sarebbero dovuti diventare nuovamente tradizione”.[129] Bisognava restaurare una “teologia che si esprime[sse] attraverso una liturgia: cerimonie, riti e simboli che rimane[ssero] immutabili in un mondo in costante mutamento”[130]. In altre parole una nuova religione immanente che “faceva leva su una grande varietà di miti e di simboli che si basavano sull'anelito a sottrarsi alle conseguenze dell'industrializzazione. L'atomizzazione della tradizionale visione del mondo e la distruzione dei legami tradizionali e personali che stavano penetrando nelle coscienze di larga parte della popolazione. I miti, che costituivano la base della nuova consapevolezza nazionale di un passato sia tedesco sia classico, si ponevano al di fuori della corrente contemporanea della storia; avevano come obiettivo quello di unificare nuovamente il mondo e di restaurare, nelle nazione ridotta in frantumi, un nuovo senso di comunione”[131] e di “appartenenza”[132]: “La descrizione o persino la visione di questi cerimoniali non possono rendere l'idea della sensazione edificante suscitata dalla partecipazione diretta. I cerimoniali di massa, le feste e le «ore di venerazione» offerte dal partito realizzavano in forma concisa la nuova religione politica”[133].
Proviamo a riassumere. Il passaggio dalla società chiusa-sacra è per forza di cose traumatico, in quanto viene completamente frantumato l'universo di valori che regolavano la vita umana al suo interno dando a ciascuno un significato esistenziale. Ciò genera, irrimediabilmente, una crisi di fede e l'angoscia del nichilismo. In Europa tale passaggio tuttavia ha impiegato secoli per giungere a compimento, il che ha fatto sì – pur tra reazioni e rivoluzioni – che si verificasse la lenta integrazione del proletariato interno. Integrazione economica, ma soprattutto sociale: lentamente la società aperta ha costruito un insieme di valori, vissuti come sacri, ma del tutto laici: il culto della magnifiche e progressive sorti dell'Umanità ed a livello individuale, la possibilità data all'Uomo, attraverso il libero dispiegamento del suo ingegno, attraverso il suo impegno ed la sua intelligenza, di migliorare la propria esistenza e di avere la certezza di poter garantire un mondo migliore a sé e ai propri figli. Per inciso il riferimento ai figli non è retorico, è un elemento importante perché non può che radicare l'uomo all'ottimismo. Non tutti hanno voglia di migliorare l'Umanità, non tutti sentono il bisogno di avere una missione da compiere, non tutti anelano alla ricchezza o alla conoscenza, non tutti ne hanno la forza[134], ma tutti coloro che hanno figli devono “poter credere che i nostri figli vivranno meglio di noi”[135].
Questo nucleo di valori è la fede pubblica della società aperta, in quanto funzionale ad essa e compatibile con la sua essenza. E' implicito che per poter essere incorporati da ciascun individuo, via socializzazione, tali valori devono essere vissuti come universali e superiori ad altri modi di pensare sentire ed agire, quindi migliori, nella più ampia accezione.
Tuttavia, come si diceva in precedenza, è fisiologico che all'interno di una società aperta ci sia un tasso di anomia più o meno ampio. In primo luogo perché non potrà mai essere eliminato lo scarto tra le asserzioni universali e la realtà: dato che “mentre proclama l'eguaglianza come diritti imprescindibile dell'uomo, la società moderna produce di continuo ineguaglianza, soprattutto materiale, più di qualsiasi altra società conosciuta. Nelle società del passato l'ineguaglianza aveva uno statuto legittimo, dettato dalla natura, dalla tradizione e dalla provvidenza. Nella società borghese, l'ineguaglianza è un'idea che circola di contrabbando, un'idea contraddittoria rispetto al modo in cui gli individui immaginano se stessi. Eppure la si trova dovunque, nella situazione che essi vivono e nelle passioni che nutrono. La borghesia non inventa la divisione della società in classi, ma ne fa un dramma ammantandola di un'ideologia che la rende illegittima”[136].
Il che significa che ci sarà sempre uno scarto tra le aspirazioni che ciascuno individuo nutre (e che correndo il rischio di cadere nel sociologismo, corrispondono a ciò che la società gli ha inoculato via socializzazione) e la realtà e cioè la drammatica presa di coscienza che non tutti possono essere faber della propria fortuna.[137]
Non solo ma esisterà sempre uno scarto tra l'idea che si è imparato ad avere del proprio mondo – migliore e superiore rispetto agli altri – e la realtà. Una qualsiasi cosa può far crollare questa che non può che essere vissuta come una certezza: un qualsiasi scandalo dell'Occidente, da Abu Graib, al Vietnam, dai pestaggi del G8, a Guantanamo, dai crolli di Wall Street alle invenzione della armi di distruzione di massa di Saddam. Questo significa che quanto maggiore è lo scarto tra i valori universali, la fede secolare della città aperta, e la percezione della realtà tanto più ampia sarà l'anomia interna e l'ampiezza del proletariato interno.
Tuttavia le cose non finiscono qui, quello appena descritto riguarda gli effetti che la realtà può avere sulle convinzioni di un cittadino che crede nella società aperta. A ciò va aggiunto un ulteriore elemento.
La forza e la fragilità della società aperta
Il passaggio dalla società chiusa alla società aperta non è soltanto un evento storico, ma un evento esistenziale che continuamente si compie in ogni individuo, dall'essere parte del tutto del bambino all'interno della famiglia, alla fede laica dell'adulto, all'abbandonarsi al sacro custodito nel proprio foro interiore dell'anziano. Sicchè attraverso il suo cammino nel tempo ciascun individuo non fa altro che perdere assoluti. Ciò significa che indipendentemente da eventi “storici” traumatici la società aperta (verrebbe da dire la vita stessa) produce anomia e cioè la perdita della fede secolare della società aperta dovuta alla frustrazione tra il futuro vagheggiato e il futuro vissuto. E una volta che si perde la fede nella possibilità di progresso attraverso l'azione umana le reazioni si dispongono lungo un continuum che ha ad un estremo il suicidio all'opposto l'assassinio della società ritenuta colpevole della propria frustrazione e quindi, a seconda della vastità della disillusione, l'ampiezza del consenso delle masse nel sostenere i tentativi rivoluzionario palingenetici.
In altre parole ci sarà sempre qualcuno che condannerà l'esistente e ne progetterà la distruzione e la rifondazione, ma solo eventi traumatici possono generare un consenso di massa intorno a questi piani e tali eventi sono quelli che spaccano il nucleo di valori della fede secolare della società aperta.
A questo punto è necessaria una piccola digressione. Va notato, infatti, che se è vero che la società aperta genera fisiologicamente anomia è altrettanto vero che essa si è attrezzata per evitare che si propaghi. Sono, infatti, infiniti gli strumenti che caricano di speranza l'avvenire, che programmano l'uomo all'ottimismo, dalle lotterie agli scatti di anzianità, dalla celebrazione del sabato sera alle vacanze collettive: sono tutte promesse di gioia, servono a scandire il futuro, creando tanti “sabato del villaggio”, “pien di speme e di gioia”. Nello stesso senso, ma è solo una supposizione, un altro fenomeno, sul finire dell'estate: all'improvviso si intensificano le réclame di serie-collezioni di prodotti che possono essere completate acquistando i singoli elementi a scadenze prefissate. La serie di coltelli da lavoro, la serie delle tazze da tè più diverse, le “penne da leggenda”, la collezione dei rosari mariani, i “santini di Gesù e Maria”, i singoli pezzi per costruire modellini di qualsiasi tipo dai Panzer tedeschi alla Amerigo Vespucci e sono tutti prodotti per adulti. perché?
perché hanno la funziona di ricreare uno stato di attesa piacevole, sebbene di più basso livello, dopo che questo si era consumato con il “grande evento” delle vacanze estive. Di riprogrammare l'ottimismo in vista della lunga traversa nel deserto autunnale che separa le feste natalizie. Il risultato è quello di accorciare il futuro e distrarre dal pensiero delle cose ultime.
Allo stesso tempo l'intera società aperta pullula di surrogati di famiglia o di comunità, dai più tradizionali (sindacati, partiti, club) ai più recenti: i social networks. In questo senso il marketing è illuminante. L'acquisto di ogni tipo di prodotto è associato alla possibilità di entrare in un gruppo, più o meno elitario di persone.
Inteso in questo senso il marketing non comunica o raffronta prezzi (forse di qui il fallimento delle pubblicità comparative), ma trasmette sensazioni di appartenenza, o meglio promesse di appartenenza, associate al possesso di un certo prodotto o al vivere una certa esperienza.
Questo fenomeno era già stato notato da Tocqueville. La Democrazia in America è, per certi versi, l'analisi di una società aperta, in cui, notava Tocqueville, “gli americani di ogni età, di ogni condizione, di ogni tendenza, si uniscono continuamente”[138] formando associazioni delle più varie: “ho trovato in America certe associazioni di cui confesso che non avevo neanche idea”[139] e concludeva: “il paese più democratico del mondo è anche quello in cui gli uomini hanno più perfezionato e applicato frequentemente l'arte di perseguire in comune gli oggetti dei desideri comuni”[140].
Segue uno dei passi più famosi della sua opera: “Presso i popoli democratici sono le associazioni che devono tenere il posto delle forze individuali fatte sparire dall'uguaglianza delle condizioni. Molti abitanti degli Stati Uniti, appena hanno concepito un sentimento o un'idea da diffondere nel mondo, si cercano e quando si sono trovati si uniscono. Dal quel momento non sono più uomini isolati, ma una potenza che si vede di lontano, le cui azioni servono di esempio; che parla e viene ascoltato. La prima volto che ho inteso dire negli Stati Uniti che ben centomila uomini si erano impegnati a non fare uso di bevande alcoliche, la cosa mi sembrava più divertente che seria, e da principio non ho compreso perché questi cittadini così temperati non si contentavano di bere acqua nell'intimità delle loro famiglie. Ma poi ho finito per comprendere che questi centomila americani, preoccupati dai progressi che faceva intorno a loro l'ubriachezza, erano sorti in difesa della sobrietà e avevano agito precisamente come un gran signore che si vestisse in modo semplice per ispirare ai cittadini il disprezzo del lusso. E' da credere che, se questi centomila uomini fossero stati francesi, ognuno di essi si sarebbe rivolto individualmente al governo per pregarlo di sorvegliare tutte le osterie del regno”[141]. In questo passaggio il fenomeno dell'associarsi è letto come civicness per dirla con Putnam[142].
Tuttavia, nel poco citato capitolo XIII del libro III Tocqueville evidenzia un'altra tipologia di associazionismo e scrive: “Nelle democrazie, dove i cittadini non differiscono mai molto fra loro e si trovano naturalmente così vicini che ogni momento può accadere loro di confondersi nella massa comune, si formano moltissime classificazioni artificiali ed arbitrarie, per mezzo della quali ognuno cerca di distinguersi per timore di essere trascinato contro voglia dalla massa”[143]. Ora, che si tratti di associazioni che tendono ad un fine comune o “piccole società particolari” pare lecito poter dire che c'è una cosa che le accomuna, il fatto che tutte posseggono un nucleo di verità percepito come assoluto, una tradizione fatta di riti, e, si pensi ai funs club, di divinità. Sono in altre parole della piccole (e certamente assai depotenziate) società chiuse: chiuse a chiunque non condivide la verità che ne costituisce l'essenza. Per dirla in maniera più chiara: nessuno che affermi di trovare gli scacchi un gioco inutile e noioso verrà mai ammesso in un circolo di scacchisti. Come conferma a contrario di ciò si legga quando scrive la Arendt a proposito dell'esigenza dei totalitarismi di rompere ogni costruzione sociale diversa dal partito al potere: “Se tale regime vuole sul serio raggiungere il suo scopo, deve far sì che «finisca una volta per tutte la neutralità del gioco degli scacchi», vale a dire l'esistenza autonoma di qualsiasi attività. Gli appassionati degli «scacchi per gli scacchi», dal loro liquidatore equiparati ai cultori «dell'arte per l'arte», non sono ancora individui completamente isolati in una massa senza legami, la cui uniformità eterogenea è una delle condizioni essenziali del totalitarismo. Dal punto di vista dei governanti, un'associazione assorbita dal gioco degli scacchi non è in linea di principio (ma solo per grado) meno pericolosa di una classe di contadini che si occupi con passione esclusiva della coltivazione”[144].
Se così stanno le cose si può dire che una società aperta per poter essere stabile e produrre quanta meno anomia possibile non solo deve avere una salda fede pubblica nell'uomo e nel progresso umano, ma deve incorporare al suo interno una fitta e libera rete di piccole società tradizionali: un universo più piccolo, per sfuggire all'anonimato, per ritrovare un po' della sicurezza della società tradizionale e riconoscersi con gli altri intorno a dei valori condivisi. Se il ragionamento è corretto, i concetti di società aperta e società chiusa più che antitetici nella realtà hanno bisogno di fondersi, per rafforzarsi a vicenda.
A questo punto possiamo riprendere il ragionamento che si era interrotto poco fa. Si diceva che eventi traumatici possono spaccare il nucleo che costituisce la fede pubblica della società aperte. Se così stanno le cose si può sostenere che la vita della società aperta è una costante e faticosa conquista del consenso, o meglio della fede, dei cittadini verso quel nucleo di valori laici che la tiene in piedi. Per questo motivo il passaggio da una società chiusa ad una società aperta non può dirsi mai definitivo. L'approdo alla società aperta è costantemente insicuro.
Se l'analisi sin qui condotta è corretta, significa che maggiore è lo scostamento tra il credo (e le promesse) della società aperta e la fede della maggioranza, maggiore è il rischio di crisi di frantumazione. A tale proposito è interessante notare come Orsini in Anatomia della Brigate Rosse metta alla base del processo che può condurre a diventare un brigatista la marginalità sociale e cioè la fase della disintegrazione dell'identità sociale, che non è altro che la perdita della fede e il nichilismo. Un nichilismo che appare chiarissimo nelle parole del brigatista Codrini, che Orsini riporta: “Sui muri delle sue case era impresso il marchio di una dolorosa, immancabile malinconia, di una disperazione senza fine. (…) Suoni metallici, ferraglie deliranti, colonna sonora del quotidiano massacro della nostra identità. Frequenti ululati di sirene (mai ne avevo uditi così tanti) squarciavano l'atmosfera di quel cupo sortilegio (…) Mi ero d'un tratto reso conto che la mia città ormai altro non era che il luogo in cui quella sera stavo muovendo i miei passi di un uomo alla deriva, senza passato, senza futuro e, quel che è peggio senza presente”[145]. Parole che hanno una straordinaria assonanza con quelle di Georg Trakl, citate in precedenza,“tutte le strade convergono in nero marciume”[146].
Da cosa deriva tale assonanza? Se il nichilismo che ha fatto da fondamenta ai regimi totalitari del XX secolo affonda le sue radici nella perdita della fede secolare nel progresso umano e se, come dimostra Orsini, i movimenti brigatisti erano animati da una stessa vis, la reazione palingenetica di un mondo marcio, si può sostenere che è la fine delle promesse del boom economico e quindi della fede nel progresso, più che gli stravolgimenti dovuti al boom stesso, la scaturigine delle brigate rosse: così come fu la Grande guerra e la crisi del Ventinove la scaturigine dei movimenti di allora: “chi non ha vissuto quegli anni, chi non ricorda o non vuole ricordare la profonda crisi economica che investì il nostro paese, chi non rammenta l'inflazione galoppante e la svalutazione della lira, chi non ha provato la paura dei licenziamenti e la disoccupazione, non può capire che cosa sia realmente avvenuto in quel periodo”[147], parole che combaciano perfettamente, almeno nei toni, con qualsiasi descrizione della Germania degli anni Venti.
Questo significa che, ogni qual volta le aspettative di futuro (e non, si badi, necessariamente le condizioni reali) vengono tradite, la fede della società aperta vacilla: sono le emozioni, per dirla con Moïsi, e le rappresentazioni del futuro che esse generano, che contano. E' la paura di aver perso il “controllo sul futuro”[148], a livello individuale innanzitutto.
Questo significa che la società aperta è come una trottola: finché gira vorticosamente (una continua Grande Trasformazione) sta in equilibrio su un perno (la sua fede secolare), se smette di girare crolla. Pertanto la crisi (anomia di massa e consenso ai movimenti palingentico-rivoluzionari) non è l'effetto della Grande Trasformazione, ma il frutto della convinzione che essa stia per finire[149] e con essa la non realizzazione delle aspettative crescenti. La presa d'atto angosciante, cioè, che “il problema dei nostri tempi è che il futuro non è più quello di una volta” per dirla con Paul Valery.
Questo significa che i movimenti palingenetico rivoluzionari nascono, tra le altre cose, dall'attrito tra la fede dei padri, la religione del progresso, per dirla con Zweig, che si è succhiata con il latte materno e una realtà non corrispondente: “C'è qualche cosa in me – scrive Zweig – che misteriosamente, ad onta di ogni esperienza e di ogni delusione, non riesce a staccarsi totalmente da quella illusione. Quello che un uomo ha assorbito durante l'infanzia nel proprio sangue, dall'aria del suo tempo, rimane in lui. E malgrado quanto ogni giornata mi urla nelle orecchie, malgrado tutto quello che io stesso ed infiniti compagni di destino hanno conosciuto di avvilimenti e di sventure, non riesco a rinnegare totalmente la fede della mia giovinezza: che un giorno, malgrado tutto la grande ascesa debba riprendere. Anche dagli abissi dell'orrore nel quale noi oggi ci muoviamo, semiciechi, a tastoni, con l'occhio sconvolto e dilaniato, io torno pur sempre ad alzare lo sguardo verso le antiche costellazioni che scintillano nel cielo della mia infanzia e mi conforto con la fede innata che un giorno questa nostra ricaduta debba apparire soltanto un intervallo nel ritmo eterno dell'eterno progredire”[150].
Per questo le fila della reazione palingenetica si gonfiano di coloro che hanno preso coscienza di non poter essere faberdel proprio destino (che è l'assunto fondamentale della fede dell'umanesimo) o per dirla con Curcio di “tutti coloro che non hanno nessun potere sulla propria vita e lo sanno”[151] Non è un caso che sia proprio del 1977 il rapporto della Commissione Trilaterale su La crisi della democrazia[152] dovuta, si sostenne, ad una intima incapacità di soddisfare le aspettative di progresso e benessere che i Trenta gloriosi avevano fatto percepire come certezze.
Resta però una domanda, perché il nucleo della fede della società aperta degli anni Settanta non si frantumò del tutto e i movimenti rivoluzionari non ebbero un consenso di massa? perché dopo la seconda guerra mondiale si risanare la questione sociale che si trascinava dal Ventinove e divenuta drammatica con la guerra, costruendo il Welfare state. Per questo Ralf Dahrendorf potè scrivere che “il consenso socialdemocratico è, per certi versi, l'espressione più alta del progresso che la storia abbia mai visto sinora. In nessun'epoca precedente un così gran numero di uomini ha avuto tante «chances» di vita”[153]. Il Welfare State resse l'onda della crisi degli anni Settanta e se, forse, solo in minima parte tenne viva la speranza, almeno non aprì le porte alla disperazione.
Se l'analisi è corretta, significa che l'attuale situazione presenta tutte le caratteristiche per una delusione di massa, con tutto quello che ne può conseguire.[154] La situazione è anzi peggiore visto il progressivo smantellamento cui è stata sottoposta la struttura del Welfare State.
La crisi, lo si ricorderà, era stata – e lo è tuttora, a parte poche eccezioni – letta come il risultato di un difetto di moralità da parte di alcuni individui (banchieri rapaci, truffatori più o meno improvvisati, politici corrotti etc) le analisi della Napoleoni, il titolo del libro di Posner (“La crisi della democrazie capitalista”[155]), l'analisi di Stefan Harper sul Beijing Consensus (il cui sottotitolo così recita How China's Authoritarian Model Will Dominate the Twenty-First Century), mettono più o meno direttamente in connessione la crisi economica con la struttura politica della democrazia liberale e rappresentativa. Si va diffondendo l'erronea convinzione che sia la democrazia ad aver generato la crisi o meglio è nella società aperta che risiede la causa e l'origine della crisi. Stiglitz ha lo stesso timore quando scrive: “temo che a mano a mano che si renderanno conto più chiaramente delle pecche del sistema economico e sociale dell'America, molti paesi in via di sviluppo trarranno le conclusioni sbagliate a proposito del genere di sistema che potrebbe servire meglio i loro interessi. (…) Chi aveva criticato la licenziosità del capitalismo statunitense oggi ha molte più frecce al proprio arco per predicare una più ampia filosofia antimercato”[156]. Questo significa inoltre che “un'altra vittima è la fiducia nella democrazia. Nei paesi in via di sviluppo la gente guarda a Washington e vede un sistema di governo che ha consentito a Wall Street di scrivere le regole del gioco a proprio uso e consumo, mettendo a rischio l'intera economia mondiale, e quando è venuto il giorno della resa dei conti, Washington si è rivolta agli addetti ai lavori di Wall Street e ai loro compari per gestire la ripresa, mettendogli in mano somme di denaro che vanno oltre l'immaginazione anche dei personaggi più corrotti del Terzo mondo”[157]. Il punto è che le stesse considerazioni le fanno i cittadini dei paesi sviluppati e democratici.
Una crisi della democrazia e della società aperta che non può che portare acqua al mulino di quanti (da Noam Chomsky a Slavoj Žižek, da Massimo Fini a Gore Vidal ect) dal deserto predicavano contro la modernità e contro gli Stati Uniti. Già perché il corrispettivo attuale del borghese di Marx sono gli Stati Uniti: l'anti-americanismo che fa spesso capolino nei lavori degli autori appena citati, infatti, non è altro che la più recente metamorfosi dell'anti-capitalismo[158].
Il ruggenti anni novanta iniziano nel 1989 con lo stupore disorientante del collasso dell'Unione Sovietica. Stupore perché, poco prima, nel 1987 due semplici parole “imperial overstretch” (sovra estensione imperiale) avevano turbato le coscienze americane. Paul Kennedy argomentava che il declino americano era scritto nella storia, proprio come sperimentato da tutte le grandi potenze del passato[159]: la sovra estensione imperiale necessita di crescenti risorse a sostegno della macchina militare, il che ad un certo punto, non può che asfissiare ed uccidere la macchina economica che la sostiene. La caduta del muro confutava, materialmente, questa tesi. The Capitol on the hill ritornava a risplendere, un faro ad indicare sia ai paesi in via di sviluppo che alla sclerotica Europa la via per uscire dalla povertà e per il progresso.
Il collasso della Mosca sovietica a primo acchito sembrò così incomprensibile da non essere celebrato come una vittoria. Tanto che scrive Silvio Fagiolo: “nessuna manifestazione di giubilo ha accompagnato la vittoria americana nella Guerra Fredda. Non coriandoli sulla Quinta Strada, non abbracci sul molo di New York”[160]. Ma anzi con una certa angoscia, per la scomparsa di quella che sembrava la stella polare della politica estera americana: il containment.
Finché non si venne piano piano elaborando che il containment era solo un pezzo della politica americana che aveva costruito l'ordine post bellico, a fianco ad esso si dispiegava la Grand Strategy americana: la ricostruzione della società aperta occidentale. La caduta dell'URSS in questo senso altro non era che il definitivo liquefarsi del blocco comunista nelle placide acque dell'ordine democratico liberale.
Gli anni novanta, pertanto, sono stati la celebrazione della superiorità storica del modello occidentale. Dopo un simile successo, con un'economia che macinava record su record, con una società che era il trionfo del dinamismo e dell'inventiva chi altro mai poteva candidarsi a sfidarla?
Se letto alla luce degli anni Novanta, Fukuyama può essere scusato (nonostante la sua retorica neohegeliana): la dialettica della storia aveva raggiunto la sua fine e lo spirito si era disvelato. L'Occidente degli anni Novanta era l'Europa che aveva celebrato le sue magnifiche sorti e progressive a Parigi del 1900. Fukuyama commise però qualche errore: trasse questa conclusione misurando la temperatura delle fede nella società aperta in un periodo del tutto eccezionale – gli anni Novanta – e non considerò che esiste – e sempre esisterà – un proletariato esterno ed interno che continuamente rimugina e riflette su un'alternativa.
E' per questo motivo che quando gli anni novanta si chiuderanno, l'11 settembre del 2001, gli americani si porranno una sola domanda “perché ci odiano?”[161]. E' una domanda a cui senza Toynbee, ed evitando di abbandonarsi all'anti-americanismo, non si può rispondere. Ed è una domanda che tutto l'Occidente, invocando l'articolo cinque dalla NATO implicitamente si pose.
L'11 settembre rappresenta la prima lesione del nucleo della fede fondante della società aperta. Una lesione che pian piano si allarga con la reazione rabbiosa, improvvisata e scomposta di Bush, con il disgusto per i fatti di Abu Graib e per il contrasto tra i principi del diritto internazionale e Guantanamo, i crolli di Wall Street e le disperazioni dovute alla crisi. Le menzogne, gli orrori, lentamente lavorano le coscienze, si aprono un varco nella loro adamantina fede degli anni Novanta. E le comunicazioni globali istantanee, nude e crude, poste tutte le cautele del caso, possono avere lo stesso effetto della trincea: mostrano a tutti la falsificazione pezzo dopo pezzo della fede secolare.
La crisi economica del 2008 è l'ulteriore colpo e la domanda è più o meno la stessa: da dove è arrivata la crisi? Come è potuta accadere?
Questo insieme di eventi ha scosso la fede della società aperta. I disoccupati sono ormai a milioni ed in ciascuno di loro – e lo si può solo ipotizzare – si potrebbe lentamente consumare la dissacrazione delle fede nel progresso della società aperta, dove progresso si intende che il domani sarà migliore dell'oggi.
Se tutto ciò è vero significa che sono in moto forze che tendono a ricreare le stesse condizioni di crisi che hanno gettato le società aperte degli anni di inizio Novecento nei trent'anni di guerra civile mondiale . Condizioni che possono disintegrare la società aperta e creare una massa amorfa di orfani del sacro, che non troveranno pace finché la loro necessità di ricreare una fede non sarà saziata.
In conclusione, il fatto che inizino a circolare analisi che collegano la crisi economica con la democrazia liberale (e quindi con il processo di modernizzazione e secolarizzazione) può essere una prima avvisaglia del fatto che il nucleo di valori che lega la società aperta potrebbe rischiare di frantumarsi e che il futuro potrebbe recare con sé qualcosa di molto cupo. Una via d'uscita tuttavia c'è e il grimaldello per spezzare questo meccanismo è nelle mani dell'Occidente.
[1] D. Moïsi, Geopolitica delle emozioni, Garzanti, Milano, 2009, pag. 139
[2] Anti-politica o disaffezione: “Oggigiorno cittadini su entrambe le sponde dell'Atlantico provano un orgoglio nettamente ridotto per i loro modelli democratici e i loro leader eletti”, D. Moïsi, Geopolitica delle emozioni, op. cit., pag. 142
[3] Ibidem
[4] L. Pellicani, I nemici della società aperta, pag. 119, in D. Antiseri, La sfida di Popper, op. cit.
[5] D. Antiseri e M. Baldini, Le ragioni della società aperta, pag. 7, in I. C. Jarvie, S. Pralong, Popper e La società aperta 50 anni dopo, Armando Editore, Roma, 2000.
[6] Ibidem
[7] K. R. Popper, La scienza e i suoi nemici, Armando Editore, Roma, 2001, pag. 137.
[8] L. Pellicani, Dalla società chiusa alla società aperta, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, pag. 72
[9] Popper infatti tratteggia il concetto di società astratta e sostiene che la società aperta si avvicina di molto a questa: “in conseguenza della perdita del proprio carattere di organicità, una società aperta può diventare gradualmente quella che amo definire una «società astratta». Essa può perdere, in considerevole misura, il carattere di gruppo concreto o reale di uomini o di sistema di gruppi reali siffatti.” K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando Editore, Roma, 1996, pag. 217. Il punto è che Popper non dice qual'è il carattere di gruppo concreto e quindi pare sostenere che la società aperta è una società che tende ad essere astratta anche se nella realtà tale grado di astrazione non si da mai del tutto concretamente. In altre parole non c'è nulla che distingue nettamente la società aperta da quella astratta, pare di capire.
[10] L. Pellicani, Dalla società chiusa alla società aperta, op. cit., pag. 182
[11] J. Ortega y Gasset, Una interpretazione della storia universale, SugarCo, Milano, 1979, pag. 140
[12] L. Pellicani, Dalla società chiusa alla società aperta, op. cit., pag. 150
[13] K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando Editore, Roma, 1996, Vol. II, pag. 274
[14] Ibidem
[15] Ibidem
[16] Ivi, pag. 274-275
[17] Ivi, pag. 274
[18] Ivi, pag. 275
[19] Ivi, pag. 283
[20] A. Einstein, L. Infeld, L'evoluzione della Fisica, Boringhieri, Torino, 1965, pag. 303.
[21] I. Kant, Vorrede an Methaphysische Anfangsgrunde der Naturwissenschaft, in Gesannelse Schriften, Vol. V, Berlino 1911, pp. 469-472, citato in D. Antiseri, Ragioni della razionalità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, Vol. I pag. 122
[22] K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, op. cit., Vol. I, pag. 228
[23] R. Castel, op. cit., pag. 35
[24] L. Pellicani, Dalla società chiusa alla società aperta, op. cit., 2002.
[25] M. Gauchet, La democrazia da una crisi all'altra, Ipermedium libri, Santa Maria C.V., 2009, pag. 25
[26] A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale, Il Saggiatore, Milano, 2008, pag. 66
[27] S. Zweig, Il mondo di ieri, Mondadori, Milano, 2011, pag.10
[28] Ivi, pag. 11
[29] Ibidem
[30] J. Ortega y Gasset, Un'interpretazione della storia universale, op. cit., pag. 143.
[31] Si noti che questo è un punto che è chiarissimo agli anti-moderni. Scrive Guénon parla di una “fede in un progresso indefinito”, considerata come “una specie di dogma infallibile e indiscutibile”, R. Guénon, La crisi del mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma, 2003, pag. 17
[32] “Sin dai suoi primi vagiti il modo di produzione capitalistico ha operato come un generatore permanente di anomia e di alienazione”, L. Pellicani, La società dei giusti, op. cit., pag. 11.
[33] F. Furet, Il passato di un'illusione, Mondadori, Milano, 1996, pag. 12
[34] Ivi, pag. 15
[35] I. Kant, Critica della ragion pura, Fabbri Editore, Milano, 1996, pag. 32
[36] Ibidem
[37] Ivi, pag 26-27
[38] Ivi, pag. 30
[39] Ivi, pag. 23
[40] La questione andrebbe ulteriormente approfondita, ma non mi pare che, almeno nella Critica della ragion pura, Kant non spieghi questa naturale predisposizione. Infatti la domanda “Come è possibile la metafisica, in quanto disposizione naturale?” viene subito tramutata in “Come è possibile la metafisica in quanto scienza?” Ivi, pag. 64-65
[41] L. Pellicani, La società dei giusti, op. cit.
[42] I. Kant, Critica della ragion pura, op. cit., Vol. I, pag. 64
[43] Ivi, pag. 65
[44] “La prova ontologica è quella che dimostra l'esistenza di Dio partendo dalla definizione della sua essenza. Così si definisce che Dio è il massimo (id quo maius cogitari nequit), l'infinito, il perfetto, l'ente necessario, la sostanza ecc... e si conclude che esiste, perché l'infinito, il perfetto, il massimo, l'ente necessario, la sostanza esistono. (…) Kant ammette che l'uomo può formarsi il concetto di un «ente assolutamente necessario», tuttavia, desumere da questo la necessità della sua esistenza è un saldo logico. Si veda B. Mondin, Storia della metafisica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1998, Vol. III, pag. 321
[45] I. Kant, Critica della ragion pura, op. cit., vol. II, pag.,626
[46] “Mentre nell'argomento ontologico si ricava l'esistenza di Dio dalla definizione della sua essenza, in quello cosmologico si assume come punto di partenza l'ente esistente di fatto – un ente peraltro finito e contingente (per questo la prova cosmologia è detta prova a contingenzia mundi) e si conclude alla realtà attuale di un essere assolutamente necessario. Ecco come Kant riassume questo argomento: «Se qualcosa esiste, deve esistere anche un Essere necessario. Ma io stesso, almeno, esisto: dunque esiste un ente assolutamente necessario. La premessa minore contiene un'esperienza; la premessa maggiore contiene l'illazione da un'esperienza in generale all'esistenza del necessario», B. Mondin, Storia della metafisica, op. cit., pag. 323
[47] I. Kant, Critica della ragion pura, op. cit., vol. II, pag., 631
[48] Ivi, pag. 640
[49] Ivi, pag.643
[50] Ivi, pag. 643
[51] Ivi, pag. 642
[52] Ivi, pag. 646
[53] Ivi, pag. 641
[54] Ivi, Pag. 33
[55] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2009, pag. 453
[56] Ivi, pag. 454
[57] La con-sacrazione dello status quo, quale disvelazione dello Spirito del Mondo di Hegel (tutto ciò che è reale è razionale).
[58] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2009, pag. 458
[59] H. Arendt, Archivio Arendt, Feltrinelli, Milano, 2003, Vol. II, pag. 127
[60] Ibidem
[61] E. Gentile, L'apocalisse della modernità, Mondadori, Milano, 2008, pag. 161.
[62] S. Zweig, Il mondo di ieri, Mondadori, Milano, 2011, pag. 156-157
[63] Ivi, pag. 9-11
[64] R.J. Overy, Crisi tra le due guerre mondiali, Il Mulino, Bologna, 1998, pag. 9
[65] G.L. Mosse, Le guerre mondiali, Editori Laterza, 1990, pag.3
[66] Citato in E. Gentile, L'apocalisse della modernità, Mondadori, Milano, 2008, pag. 6
[67] R. J. Overy, Crisi tra le due guerre mondiali, op. cit., pag. 10
[68] La morte di Dio e la scomparsa di un ordine: “Noi europei ci troviamo di fronte a un enorme mondo di macerie dove alcune case ancora si stagliano in alto, molte altre restano in piedi decrepite e sinistre, la maggior parte è già stesa al suolo, in modo alquanto pittoresco – dove esisterebbero rovine più belle – così ammantate di alta e piccola erbaccia. La Chiesa è questa realtà al tramonto: vediamo la società religiosa del cristianesimo scossa fin dall'imo delle sua fondamenta, la fede in Dio rovesciata, la fede nell'ideale ascetico-cristiano combatte appunto ancora la sua ultima battaglia. Una tale opera a lungo costruita e ben fondata come il cristianesimo – fu l'ultimo edificio romano! - non poteva essere certamente distrutta in una sola volta: ogni genere di terremoto ha dovuto squassarla, ogni genere di spirito che trivella, scava, infracida ha qui dovuto prestare man forte”, F. Nietzsche, La Gaia scienza, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1991, pag. 297
[69] M. Weber, La scienza come professione, Armando, Roma, 1998, pag. 74
[70] R.J. Overy, Crisi tra le due guerre mondiali, op. cit., pag. 11
[71] H. Rauschning, La rivoluzione del nichilismo, Armando, Roma, 1994
[72] M. Silvestri, La decadenza dell'Europa occidentale, Einaudi, Torino, 1977, vol. II, pag. 7
[73] F. Furet, Il passato di un'illusione, op. cit., pag. 19
[74] L. Pellicani, La società dei giusti, op. cit., pag. 76
[75] M. Silvestri, La decadenza dell'Europa occidentale, op. cit., vol. II, pag. 4
[76] Ivi, pag. 4-5
[77] F. Furet, Il passato di un'illusione, op. cit., pag. 27
[78] Ivi, pag. 29
[79] Z. Sternhell, Nascita dell'ideologia fascista, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2008, pag. 13.
[80] E. Gentile, op. cit., pag. 19
[81] E. Junger, Boschetto 125, Guanda, Milano, 1999, pag. 28. Citato in E. Gentile, L'apocalisse della modernità, op. cit., pag. 4.
[82] Citato in E. Gentile, op. cit., pag. 20
[83] Ivi, pag. 21
[84] Ivi, pag. 21-22
[85] Ivi, pag. 21
[86] Citato in E. Gentile, op. cit., pag. 22
[87] R.J. Overy, Crisi tra le due guerre mondiali, op. cit., pag. 18-20
[88] Z. Sternhell, Nascita dell'ideologia fascista, op. cit., pag. VII
[89] Citato in R. De Felice, Fascismo: le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Laterza, Bari, 1998, pag., 391.
[90] Ora il punto è che se il fascismo è il frutto di una depressione morale scaturita dalla guerra, in quanto questa ha falsificato gli assiomi di fondo della società aperta, non può essere affatto considerato una “parentesi irrazionalistica” e qui, infatti, che bisogna discostarsi dalla lettura crociana.
[91] Ibidem
[92] La citazione è tratta dal libro di Peter Ferdinand Drucker, The End of economic Man: The origin of Totalitarism, John Day Co., New York, 1939: “La spiegazione del fascismo come un ultimo disperato tentativo del capitalismo per differire la rivoluzione socialista, è, semplicemente, priva di verità. Non è vero che il grande industrialismo promosse il fascismo, per contrario, così in Italia come in Germania, la proporzione dei simpatizzanti e sostenitori del fascismo nelle classi industriali e bancarie fu piccolissima. Egualmente non è vero che la grande industria profittasse del fascismo: di tutte le classi, essa probabilmente fu quella che più sofferse per il totalitarismo economico e la Wehrwirtschaft. E finalmente è affatto ridicolo di asserire che la classe capitalistica – o in questo caso un'altra qualsiasi – avrebbe avuto motivo di temere una vittoria delle classi lavoratrici nelle prefascistiche Italia e Germania. Tutta questa tesi non è altro che un debole tentativo di conciliare la teoria marxista con la realtà dei fatti, falsificando la storia: è una zoppa difesa, e non una spiegazione seria (…) Non ha senso domandarsi quale classe porto al potere il fascismo. Nessuna singola base potè ciò. (…) Mussolini ed Hitler furono necessariamente sostenuto da gente di tutte le classi”. Pag. 7-8
[93] Sul carattere non totalitario del fascismo si veda L. Pellicani, Lenin e Hitler, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009.
[94] B. Croce, Chi è «fascista»?, in R. De Felice, Il Fascismo, Laterza, Bari, 2008, pag. 397-401
[95] J. Burckhardt, Considerazioni sulla storia universale, citato in J. Fest, Hitler, Garzanti, Milano, 2005 pag. 23
[96] J. Fest, op. cit., pag. 26
[97] Ivi pag. 23
[98] Ibidem, a tale proposito di veda anche G. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, Torino, 2008.
[99] M. Gauchet, La democrazia da una crisi all'altra, op. cit., pag. 32.
[100] K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, op. cit. Vol. I pag. 19. A testimonianza di ciò nel capitolo “le radici della devozioni” R. J. Evans scrive “Per gli attivisti di base degli anni '20 e dell'inizio del decennio successivo, l'elemento più importante dell'ideologia nazista era l'enfasi sulla solidarietà sociale, il concetto di una comunità razziale organica di tutti i tedeschi, seguito, da una certa distanza dal nazionalismo estremista e dal culto di Hitler. Il ruolo dell'ideologia diminuiva con l'età degli attivisti e quanto minore era l'età, tanto maggiore era l'efficacia di idee quali la cultura germanica e il ruolo guida di Hitler”. R.J. Evans, La nascita del Terzo Reich, Mondadori, Milano, 2005, pag. 246
[101] K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, op. cit., Vol. I, pag. 19
[102] Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2009, pag. 440-441
[103] R.J. Overy, Crisi tra le due guerre mondiali, op. cit., pag. 13
[104] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, op. cit., pag. 436
[105] Ivi, Pag. 437
[106] R.J. Overy, Crisi tra le due guerre mondiali, op. cit., 41
[107] Citato in E. Nolte, I tre volti del fascismo, Milano, Mondadori, 1971, pag. 566-567
[108] R.J. Overy, Crisi tra le due guerre mondiali, op. cit., pag. 72
[109] Z. Sternhell, Nascita dell'ideologia fascista, op. cit., pag. 19.
[110] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1981, pagg. 109-110
[111] F. Engels, Lettere da Londra, in Opere complete, op. cit., Vol III, pag. 415.
[112] R.J. Overy, Crisi tra le due guerre mondiali, op. cit., pag. 96
[113] M. Silvestri, La decadenza dell'Europa occidentale, Einaudi, Torino, vol. II, pag. 105
[114] Z. Sternhell, La nascita dell'ideologia fascista, op. cit., Ivi, pag. 21
[115] Ivi, pag. 35
[116] Ivi, pag. 36
[117] P. Anderson, “Modernità e rivoluzione”, in Mondoperaio, 1985, n. 3, pag. 77, citato in L. Pellicani, La società dei giusti, pag. 62. “L'emancipazione del cittadino e della società civile a petto dello Stato era, a suo giudizio, una falsa emancipazione, poiché accettava l'uomo così come esso si presentava dopo la rovinosa irruzione della proprietà privata sulla scena della storia: un essere egoista, limitato, ripiegato su se stesso, isolato dalla comunità; in una parola un burgeois. (…) Stabilito che la moderna società di mercato è un mondo in cui il denaro – «universale prostituta» e «universale mezzana di uomini'» - ha prodotto la «perversione e la confusione di ogni qualità umana e naturale» e che le istituzioni della civiltà liberale non fanno che allontanare gli uomini dalla unità originaria, ne deriva che la liberazione dell'umanità esige che «tutto ciò che è connesso all'ordine borghese deve essere mutato». Morale: non una delle istituzioni della civiltà liberale può e deve essere salvata, poiché tutte, senza eccezione alcuna, sono affette da un vizio originario che le rende «innaturali» esprimono e consacrano lo «stato di scissione» dell'umana famiglia e rivelano che, con il trionfo dello spirito acquisitivo, l'unità originaria si è disintegrata, trasformando la società in «un deserto popolato da bestie feroci»”, ivi, pag. 63
[118] L. Pellicani, La società dei giusti, op. cit., pag. 352
[119] K. Marx, Sulla questione ebraica, in Opere complete, Vol. III, Editori Riuniti, Roma pag. 187.
[120] G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, Milano, 2008
[121] L. Pellicani, La società dei giusti, op. cit., pag. 352
[122] Ivi, 20
[123] A.J. Toynbee, A Study of History, Cambridge University Press, London 1964, vol. V, pag. 63. Pertanto, nota Pellicani: “Il proletariato interno è una classe psicologica composta da individui di estrazione sociale diversissima e dolorosamente colpiti dalla dissoluzione della Gemeinschaft. Essi per il fatto di essere stati emarginati dalla vita comunitaria, hanno cessato di sentirsi parti integranti del Macrocosmo in cui vivono e si sono liberati di quei vincoli morali e affettivi che un tempo avevano dato significato e orientamento alla loro esistenza. Per questo sono disponibili per nuovi messaggi; e sono altresì disponibili per una politica di radicale rottura con l'ordine esistente, nei cui confronti non sentono che odio e rancore. A partire da questo momento, essi si convertono in una «classe di allogeni» polemicamente orientata verso tutto ciò che li circonda: uomini, comportamenti, valori, istituzioni. La scena è ormai pronta per la secessione rivoluzionaria del proletariato interno”.
[124] H. Khon, Le ideologie politiche del ventesimo secolo, Firenze 1964, pag. 78-79, citato in R. De Felice Le interpretazioni del fascismo, op. cit., pag. 40.
[125] L. Pellicani, La società dei giusti, op. cit., pag. 352
[126] H. Rauschining, La rivoluzione del nichilismo, Armando, Roma, 1995, pag. 53.
[127] Ivi, pag. 65.
[128] M. Garcia Pelayo, Miti e simboli politici, Borla, Roma, 1970, pag. 47-48, citato in L. Pellicani, La società dei giusti, op. cit., pag. 236
[129] G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Il Mulino, Bologna, 1974, pag. 10
[130] Ivi, pag. 22
[131] Ivi, pag. 12
[132] Ivi, pag. 235
[133] Ibidem
[134] Scrive Durkheim ne Il suicidio, (1897) “La vita è tollerabile, si suole dire, soltanto quando vi si scorge una ragione d'essere, quando vi sia uno scopo che ne valga la pena. L'individuo, preso a sé, è troppo poca cosa, non è un fine sufficiente alla sua attività. Non solo egli è limitato nello spazio ma strettamente limitato nel tempo. Quando non si hanno altri obiettivi all'infuori di noi stessi, non possiamo sfuggire all'idea che i nostri sforzi siano destinati, in fondo, a perdersi in quel nulla dove dovremmo finire. Ma l'annullamento ci terrorizza, e in tali condizioni non sapremmo trovare il coraggio di vivere, di agire, di lottare giacchè di tanta fatica non deve restare nulla”. E. Durkheim, Il suicidio, Utet, Torino, 1969, pag. 306.
[135] B. Severgnini, “Sogni per cittadini normali”, Corriere della Sera, 10 novembre 2010
[136] F. Furet, Il passato di un'illusione, op. cit., pag. 14
[137] Tale presa si coscienza può essere la molla per una insurrezione palingenetica. Significativamente Orsini scrive “Il brigatista è un individuo «marginale» che percepisce come profondamente ingiusta la condizione in cui versa. «Marginalità» – si presti attenzione – non è «emarginazione» L'emarginazione è una condizione di oggettiva privazione. La marginalità, invece, è uno stato d'animo, che può colpire anche individui di status sociale elevato. Essa si manifesta quanto l'individuo ritiene che il suo ruolo nella società sia inferiore ai meriti e alle capacità che si attribuisce”. A. Orsini, Anatomia delle brigate rosse, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010, pag. 40
[138] A. de Tocqueville, La democrazia in America, Fabbri Editore, Milano, 1996, Vol. II, pag. 501
[139] Ibidem
[140] Ivi, pag. 502
[141] Ivi, pag. 503
[142] R. Putnam, La tradizione civica delle regioni italiane, Mondadori, Milano, 1993
[143] A. de Tocqueville, La democrazia in America, op. cit., pag. 598
[144] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, op. cit. pag. 446
[145] G. Codrini, Io, un ex brigatista, pag. 67-69, citato in A. Orsini, Anatomia delle brigate rosse, op. cit., pag, 118
[146] Citato in E. Gentile, L'apocalisse della modernità, op. cit., pag. 6
[147] A. Grandi, L'ultimo brigatista, Rizzoli, Milano 2007, pagg. 50-51, citato in A. Orsini, op. cit., pagg. 144-145
[148] D. Moïsi, Geopolitica delle emozioni, Garzanti, Milano, 2009, pag. 139
[149] Al contrario l'ideologia palingetico-rivoluzionaria è figlia degli intellettuali declassè vittime della Grande Trasformazione.
[150] S. Zweig, Il mondo di ieri, op, cit. pag. 12
[151] Citato in A. Orsini, op. cit., pag. 160
[152] M. J. Crozier, S. P. Huntington. J. Watanuki, La crisi della democrazia, Franco Angeli, Milano, 1977. (ed. or. The Crisi of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, New York, 1975).
[153] R. Dahrendorf, La libertà che cambia, Laterza, Bari-Roma, 1981, pag. 72.
[154] Su uno striscione alle manifestazioni studentesche del 30 novembre 2010 contro il DDL Gelmini sulla riforma universitaria, si legge “Figli della stessa RABBIA!” e al centro compare la stella a cinque punte. Lo striscione è firmato: Liceo Classico Albertelli – Ripetta di Roma.
[155] Soltanto il titolo, perché in tutto il volume non si trova una sola parola contro la democrazia. E' una critica cruda alla politica e ai politici, ma non alla democrazia capitalista. Non a caso il libro si chiude con queste parole: “La questione su cui concludo queste pagine è se gli Stati Uniti abbiano la struttura istituzionale e una cultura politica all'altezza delle sfide economiche che devono affrontare. Pur essendo impacciato, vischioso, poco competente e persino losco, il nostro sistema complessivo di governo sa reagire prontamente ed efficacemente a una vera emergenza. (…) Quando invece le sfide sono immense ma non c'è un'emergenza, il nostro sistema politico tende a rivelarsi inefficace. Mandati troppo brevi (rinnovabili o meno che siano) mozzano gli orizzonti dei politici; e la politica basata su gruppi d'interesse, che influenza con grandi somme di denaro, un complesso sistema di governo decentrato, fortemente orientato verso lo status quo, può facilmente procrastinare le necessarie riforme oltre quegli orizzonti. Il crollo finanziario e la successiva depressione (ché così, ribadisco, dobbiamo chiamarla) hanno entrambi evidenziato e ingigantito i seri problemi della finanza pubblica americana, che non scompariranno con soluzioni populistiche volte a raccogliere consenso politico e di opinione pubblica. Tra questi problemi vi sono l'enorme debito pubblico per la diminuzione delle entrate fiscali dovuta alla depressione, le ingenti spese che il governo sta sostenendo per contrastare la depressione stessa e l'estensione, favorita da quest'ultima, del ruolo del governo nell'economia. Questi sviluppi – che interagiscono con l'apparente incapacità del governo di tagliare i programmi di spesa esistenti (anche se insensati), di imporre la copertura finanziaria per i nuovi e costosi programmi, di contenere la crescita dei programmi di spesa sociale e di aumentare le tasse – rappresentano la crisi della democrazia capitalista di tipo americano”, pag. 386-387.
[156] J. E. Stiglitz, Bancarotta, op. cit., pag. 324.
[157] Ivi, pag. 324-325
[158] L'argomento andrebbe approfondito ulteriormente, ma giusto a titolo di esempio si confrontino questi due brani: Marx parlando della borghesia scrive: “Essa costringe tutte le nazioni a adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire;le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa si crea un modo a propria immagine e somiglianza”. Sansonetti invece parla dell'America, o meglio dell'americanismo e cioè di “una visione del mondo che vuole l'unificazione di tutto (del pensiero, dei valori, dei metodi di governo, degli stili di vita, delle forme della produzione e del consumo) e la dipendenza generale dal modello americano. L'americanismo vuole rendere tutto il mondo subalterno all'America”, P. Sansonetti, Dal '68 ai no-global, Baldini Castoldi Dalai, 2002, pag. 83. Se poi si aggiunge un'altra citazione si può tentare un ulteriore parallelo: scrive Guénon “è l'Occidente che minaccia di tutto sommergere e di trasportare l'intera umanità nel turbine della sua caotica attività” pag. 54; con il suo “bisogno di un'agitazione incessante, di un mutamento continuo”, pag. 61, La crisi del mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma, 2003. Appare allora abbastanza evidente che l'anti-capitalismo e l'anti-americanismo si abbeverano alla stessa fonte: lo spirito anti-moderno.
[159] P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989
[160] S. Fagiolo, La pace fredda, Marsilio, Padova, 1996, pag 9
[161] Z. Sardar, M. W. Davies, Perché il mondo detesta l'America?, Feltrinelli, Milano, 2003